ISSN: 2038-0925

Prefazione n. 5 – gennaio 2011

a cura di Vittorio Cappelli
Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, N. 5, 1|2011

Negli ultimi dieci anni, riprendendo ed ampliando i temi di una mia ricerca giovanile, ho concentrato gran parte dei miei studi, delle mie curiosità e delle mie energie nell’esame di quella particolare emigrazione italiana che privilegiò i Paesi e le regioni che ho chiamato “altre Americhe”, situate nell’enorme spazio compreso tra i Caraibi, le Ande e l’Amazzonia. Ho cercato di percorrere piste di ricerca più o meno inesplorate, considerando temi e territori non proprio consueti, nella convinzione che la storia dell’emigrazione sia un argomento assai complesso che va esaminato nella sua affascinante pluralità, irriducibile a rappresentazioni coese ed uniformi. L’ho fatto con passione, cercando di mettere a frutto quel po’ di esperienza e di conoscenze che avevo accumulato nell’arco di tempo, ahimè non più breve, della mia vita di studioso e di storico.

Quando, dunque, la giovane e attivissima pattuglia dei redattori di Diacronie mi ha cercato, invitandomi a presentare questo numero monografico dedicato alle “altre Italie”, alle immagini e alle rappresentazioni delle tante comunità italiane sparse nel mondo, mi sono assai rallegrato, ma non solo per il compiacimento che deriva da quel po’ di narcisismo che alberga in varia misura in ciascuno di noi. Ho preso atto, piuttosto, con gratitudine, nei confronti di questi miei giovani colleghi, che il mio sforzo non è stato vano. E ancor maggiore gratitudine ho avvertito quando, accettata la proposta, ho scorso il sommario di questo numero e ho preso a leggere i testi. Cercherò rapidamente di spiegare perchè.

È noto a tutti, naturalmente, che negli anni Novanta del secolo scorso la nuova e complicata esperienza dell’immigrazione ha posto la politica e la cultura italiane di fronte ad una questione inedita, che da allora scuote un Paese che è stato segnato, come nessun altro in Europa, negli ultimi centocinquant’anni, dall’emigrazione (interna, internazionale e transoceanica). Fino a quel momento la cultura storiografica italiana aveva posto in un cantuccio lo studio dell’emigrazione, considerando questo tipo d’indagine un ambito “minore” ed eccentrico, situato in una specie di limbo, sia rispetto alla storia d’Italia che alla storia delle Americhe e degli altri Paesi di destinazione degli emigranti. Ma l’irruzione degli immigrati in Italia ha ben presto costretto anche la storiografia a riconsiderare la lunga storia dell’emigrazione italiana come un elemento costitutivo dell’identità di questo nostro Paese, anche per l’urgenza e la necessità di dotarsi di adeguati elementi di consapevolezza a fronte delle gravi difficoltà, pubbliche e private, nel fare i conti col nuovo ruolo di Paese d’immigrazione. E al tempo stesso si è preso a studiare più seriamente la presenza e il ruolo, spesso decisivo, degli italiani nella storia dei Paesi d’accoglienza.

È questo, come sappiamo, il nuovo contesto che ha determinato l’imprevisto rigoglio degli studi di storia dell’emigrazione, specialmente in quest’ultimo decennio che s’è aperto e s’è chiuso con due impegnative opere collettanee sull’argomento: la Storia dell’emigrazione italiana, curata nel 2001-02 da Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina per l’editore Donzelli, e l’Annale della Storia d’Italia dedicato alle Migrazioni, curato nel 2009 per Einaudi da Paola Corti e Matteo Sanfilippo. Tra l’una e l’altra iniziativa editoriale, una molteplicità di progetti ha arricchito il panorama della ricerca, ma ha anche esteso la fruizione dei suoi risultati con numerose proposte museali – locali, regionali e nazionali –, culminate, nel 2009, nell’inaugurazione del Museo dell’Emigrazione Italiana presso il Complesso Monumentale del Vittoriano a Roma.

Confesso che a questo punto mi sarei aspettato un riflusso o almeno un calo di tensione e d’interesse per questi studi. E invece questo numero di Diacronie contraddice clamorosamente i miei timori ed apre felicemente rinnovate prospettive di ricerca, affidate in gran parte a giovani e giovanissimi studiosi.

Bene hanno fatto i redattori della rivista a mettere in primo piano la rappresentazione dell’Italia e degli italiani nel mondo, osservando l’evoluzione dello sguardo altrui attraverso il filtro dell’emigrazione italiana di massa (è il caso degli Usa, del Brasile, del Belgio, della Francia), ma anche attraverso rapporti e fattori d’altro tipo (è il caso della percezione del Risorgimento in Polonia, delle relazioni italo-spagnole nel Mediterraneo, dell’immagine dell’Italia in Serbia nel secondo dopoguerra). Bene hanno fatto, perché la costruzione delle rappresentazioni collettive e la formazione di stereotipi – positivi o negativi che siano – è un passaggio cruciale dell’esperienza migratoria; e, più in generale, misurarsi con le rappresentazioni dell’Italia nel mondo può aiutare la cultura italiana a sortire dal guscio di una piccina autosufficienza.

Due studiosi esperti come Stefano Luconi e João Fábio Bertonha sono stati chiamati a descrivere la rappresentazione degli italiani in due dei principali Paesi di emigrazione, gli Usa e il Brasile.

Il primo ha evidenziato la scarsa considerazione goduta dall’Italia e dagli italiani negli Usa al tempo di un’immigrazione di massa in cui prevalevano in misura crescente i meridionali, rappresentati come razzialmente inferiori, di “ascendenza africana”, e dunque estranei e addirittura pericolosi per la salvaguardia delle radici anglo-sassoni degli Stati Uniti. Ma, a questo proposito, è interessante considerare, come fa opportunamente Luconi, il contributo offerto a questo tipo di rappresentazione degli immigrati italiani d’origine meridionale dalla stessa cultura positivista italiana di fine Ottocento. Le argomentazioni pseudo scientifiche di Lombroso, Sergi, Niceforo, ecc., circa l’inferiorità razziale dei meridionali, offrivano, infatti, ottimi strumenti a chi negli Usa si opponeva all’ingresso degli italiani e, più in generale, degli immigrati provenienti dall’Europa meridionale e orientale.

Bertonha si sofferma, invece, sull’irriducibilità ad una immagine coerente ed uniforme delle rappresentazioni degli italiani in Brasile, la cui molteplicità è determinata dalla complessità dei flussi migratori diretti verso un Paese di dimensioni continentali, assai articolato geograficamente ed economicamente. Poco in comune hanno, infatti, i commercianti d’origine meridionale, insediati nelle città del nord e del nordest del Brasile, con i coloni veneti del sud gaúcho; i quali ultimi poco hanno a che fare con i lavoratori delle fazendas pauliste, che sono dal loro canto distanti anni luce dagli imprenditori, dai professionisti, dagli artisti e dagli artigiani italiani che diventano artefici della modernità di São Paulo e di tante altre città brasiliane. Su un altro piano, gli italiani sono rappresentati da un lato come potenziali sovversivi e anarchici pericolosi, ma dall’altro sono visti come i creatori dei principali gruppi industriali del Paese. E ancora, se l’immagine dell’Italia si confuse a un certo punto con quella del fascismo, in tempi più recenti è diventata quella di un Paese avanzato e moderno, anche se gli stereotipi della tarantella, della pizza e della polenta conservano una forza evocativa non trascurabile.

Naturalmente queste due grandi realtà del nuovo mondo non esauriscono un quadro di grande complessità. E dunque risulta estremamente utile l’attenzione prestata, ad esempio, all’emigrazione italiana in Belgio, dove l’italianità è riassunta drammaticamente dall’identità del minatore, o alla più variegata emigrazione in Canada, che è pervenuta ad esiti sociali spesso considerevoli. Ma le Italie “altre” di Diacronie attirano la nostra attenzione ancor più per aver preso in considerazione realtà solitamente trascurate o del tutto ignorate. È il caso della comunità italiana di Istanbul, che presenta molti motivi di interesse, esaltati dalla scelta assai opportuna di esaminarne le vicende sul lungo periodo. In verità, il contributo di Luca Zuccolo su Istanbul risulta stimolante non solo per aver indagato sulla lunga storia di una comunità pressoché ignorata, segnalandone le peculiarità, come quella della presenza ebraica, ma anche perché il saggio può essere letto come un suggerimento e uno stimolo a ricostruire, più in generale, la presenza italiana nell’Impero Ottomano, approfondendo gli studi anche sulle già note comunità di Alessandria d’Egitto e Tunisi.

Un ulteriore merito di questa rassegna di studi mi sembra essere l’attenzione prestata alle relazioni tra Spagna e Italia. È questo un terreno di analisi posto in secondo piano da una certa cultura italiana, spesso succube dei miti transalpini e anglosassoni, perché dominata da un’attitudine, tutto sommato provinciale, che l’ha distratta dalle sue proiezioni mediterranee. Il porre attenzione, invece, alle relazioni italo-spagnole tra XIX e XX secolo, consente di cogliere una dimensione geostorica ricca di relazioni e di opportunità. In questo quadro, mi sembra assai stimolante la scelta di privilegiare un approccio di tipo culturale, come si prova a fare con gli studi di Alessandro Ghignoli e Llanos Gómez, che si soffermano rispettivamente sulla ricezione spagnola della poesia italiana contemporanea e sulla proiezione ispanica del futurismo italiano, in occasione del viaggio in Spagna di Filippo Tommaso Marinetti del 1928.

Quest’ultimo contributo appare stimolante, non solo per la rinnovata attenzione all’espansione internazionale del futurismo, nella fattispecie in Spagna, a partire dall’Ultraismo di accentuata derivazione futurista, ma anche perché ci indica una possibilità d’indagine più ampia, che riguarda le relazioni tra il futurismo italiano e l’intera cultura iberoamericana, a partire da una possibile comparazione, di sicuro interesse, tra i viaggi di Marinetti in Argentina, in Brasile e in Spagna, per valutare la eco, diretta e indiretta, nella modernizzazione culturale di ciascuno di questi Paesi, del movimento futurista.

Potrebbero apparire, queste ultime, divagazioni eccentriche rispetto al tema delle rappresentazioni dell’Italia nel mondo; ma, invece, si tratta di percorsi d’indagine preziosi, per cogliere uno dei versanti non secondari del dipanarsi della presenza italiana all’estero nella prima metà del XX secolo. Mi riferisco al versante della modernità, culturale e artistica, cui s’è affidata, più spesso di quanto normalmente s’immagini, la modernizzazione novecentesca dell’intero nuovo continente.

Insomma, l’insieme variegato di queste ricerche, si configura, a mio avviso, come una solenne smentita di quanti si ostinano ancora oggi a sottovalutare questo campo di studi. Capita di leggere, infatti, che le migrazioni italiane all’estero siano ormai «terreni assai esplorati», tanto da costringere i ricercatori a ripiegare «su singole figure, su piccole realtà, su segmenti molto specifici»[1] . La ricchezza e la novità dei contributi di Diacronie s’incarica di contraddire questa radicale incomprensione e promette ulteriori e rigogliosi sviluppi e approfondimenti.

Vittorio Cappelli

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Note


[1] Cit. in «Il Mestiere di storico», II, 2/2010, p. 93.
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Per citare questo articolo


CAPPELLI, Vittorio, «Prefazione», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, N. 5, 1|2011
http://www.studistorici.com/2011/02/09/prefazione-n-5-gennaio-2011/>
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