ISSN: 2038-0925

Parole in storia: MERITOCRAZIA

di Salvatore Cingari

Parole in Storia - Meritocrazia

 

Il termine meritocrazia è composto da una parola di radice latina, meritus, e una di origine greca, kratos. Significa quindi potere al merito e indica una distribuzione del potere stesso con criteri acquisitivi (talento e sforzo) e non con criteri ascrittivi (ereditarietà).

La parola è entrata nel lessico politico occidentale con l’opera di Michael Young, The rise of meritocracy (1958). Si tratta di un romanzo sociologico, di genere distopico, in cui l’autore, scienziato sociale e militante laburista (a lui si deve il manifesto della vincente campagna elettorale del secondo dopoguerra), immagina un io narrante del 2033 che rievoca il cammino della meritocrazia, dalla legge del 1944 (votata dai conservatori ma ispirata dai laburisti) per cui con un sistema di testing ad 11 anni veniva deciso il destino scolastico degli studenti, fino all’epoca successiva al 1958 in cui si immagina che la Camera dei Lords venga selezionata tramite test di intelligenza, gradualmente sopravanzando la Camera dei Comuni. Il mondo prefigurato da Young vede progressivamente divaricarsi ed estraniarsi due classi sociali, il cui divario gode di legittimità e consenso proprio perché sancito dal crisma scientifico dei test. Nonostante ciò, proprio nel 2033 esplode una rivolta dei “populisti” che finisce per uccidere il narratore stesso. I rivoltosi esprimono le loro idee nel “Manifesto di Chelsea”, in cui si sostiene che ogni soggetto deve valere per le potenzialità uniche e irripetibili che ha in sé e non per i criteri imposti dalla società. La natura “teologica” e socialmente (classisticamente) condizionata dell’idea del merito [1] è quindi qui con forza affermata da Young, che denuncia il produttivismo competitivo alle cui lusinghe i laburisti di Attlee avevano ceduto, provocando la sua presa di distanze dal partito.

Meritocrazia nasce quindi come termine negativo. Lo spiega tempestivamente Cesare Mannucci nella prefazione alla prima traduzione italiana del volume di Young, uscita (significativamente) per Edizioni di Comunità nel 1962. L’eguaglianza di opportunità finisce cioè per diventare eguale opportunità di diventare diseguali in termini di potere e diritti e dunque alla fine la meritocrazia è il «contrario della democrazia» [2]. Di diverso avviso Galvano della Volpe che in Rousseau e Marx sostiene che solo con la lotta di classe marxiana si può realizzare l’ideale roussoviano di una società in cui il potere non è di tipo ascrittivo. Il comunismo è una meritocrazia, dice sostanzialmente Della Volpe, probabilmente ispirandosi alla Russia post-staliniana. In generale, invece, la storia della parola, in Europa, rimane fedele alla sua origine youngeana. Nel 1976, nella voce corrispondente del Dizionario di politica UTET, di L. Fischer, si sottolinea come la meritocrazia si sposi ad una società diseguale, dimentica tra l’altro della dimensione marxiana del bisogno. Ancora nel 1998, Antony Giddens, in La terza via, scrive che la riforma dello stato sociale, per lui – “consigliere del principe” di Tony Blair – oltremodo necessaria, non doveva portare ad un esito meritocratico [3]. E Romano Prodi, nell’introduzione all’edizione italiana del volume, l’anno successivo, rimarca questo punto: è necessario sfuggire le mitologie “meritocratiche” e “neo-liberiste” [4].

Negli Stati Uniti, invece, Daniel Bell, già nel 1972, in un saggio intitolato On meritocracy and equality denuncia il progressivo abbandono del criterio meritocratico in favore dei sistemi per quote invalsi con le affirmative actions johnsoniane. In tal modo – egli sostiene – si abbandona la natura liberale del sistema americano, basata sull’eguaglianza dei punti di partenza, in favore di un sistema basato sull’eguaglianza dei risultati. Su questo punto Bell critica Una teoria della giustizia (1971) di John Rawls. Rawls, nella sua opera maggiore, raccogliendo le suggestioni che vanno dalla New Frontier kennediana alla Big Society johnsoniana aveva sottolineato come in realtà anche il talento fosse qualcosa di ascrittivo, in quanto dono di natura (e anche la capacità di lavoro lo è!). I soggetti che ne godono non devono avere più potere ma anzi più doveri di mettersi a servizio della società. La mera uguaglianza di opportunità genera diseguaglianze. La soluzione non è però il livellamento, ma il principio di differenza: l’avanzamento di ognuno è socialmente accettabile solo quando corrisponde ad un miglioramento di chi sta indietro nella scala sociale. Per Bell, tuttavia, questo tipo di visione legittima i processi di democratizzazione in corso che, a suo avviso, rischiano di far vincere veramente i “populisti” descritti da Young.

Bell sembra inaugurare una tradizione di fraintendimenti dell’opera del sociologo inglese, di cui curiosamente non veniva colto l’artificio letterario. Fu lo stesso Young a lamentare questa strana fortuna della sua opera, prima introducendo una riedizione americana del suo volume nel 1994 e poi nel vibrante articolo su «The Guardian» del 2001 (Down with meritocracy), rivolto a Tony Blair a cui, fra l’altro, rimprovera la contraddizione fra un governo composto di super-ricchi figli del privilegio e la retorica meritocratica [5]. Siamo ormai all’inizio del millennio, in un’epoca in cui, grazie anche all’influenza del New Labour, anche in Europa il termine meritocrazia inizia ad essere utilizzato in positivo, come ingrediente essenziale di un sistema giusto. L’egemonia neo-liberale, anche linguistica, è ormai incontrastata e si dispiega come sistema bio-politico in cui i soggetti “liberamente” investono su loro stessi come capitale sociale. Ecco perciò che la logica del “merito” individuale sostituisce la contrattazione collettiva nel mondo del lavoro e la valutazione e i processi di qualità invadono la pubblica amministrazione che si va aziendalizzando. Non è più la collettività che deve farsi carico dei fallimenti personali, ma l’individuo che deve meritarsi un posto nella società, mostrandosi sempre più performativo e competitivo. La retribuzione non va più legata ad automatismi anagrafici ma alla produttività che ora, rispetto ai tempi di Young, è quella liquefatta e spettacolarizzata dell’azienda post-fordista.

In Italia, dopo la crisi di Tangentopoli, sempre più i problemi sociali vengono declinati nella chiave moralistica della corruzione oppure del favoritismo, rimuovendo il problema della struttura della produzione e della distribuzione delle risorse e le dinamiche di classe. Il privato e la società civile divengono sinonimi di efficienza e onestà, all’opposto di un pubblico inefficiente e corrotto, minato da favoritismi. Ecco che perciò la disoccupazione determinata dai processi di automazione e finanziarizzazione, ma anche dai tagli verticali ai servizi pubblici, tende ad essere spiegata con un presunto deficit di “meritocrazia”. La precarizzazione del lavoro viene interpretata come libertà di mettersi sul mercato rifiutando i privilegi e le tutele del passato, meritandosi il proprio benessere: di questo avviso, ad esempio, Giuliano da Empoli in La fabbrica del talento (2000).

La meritocrazia sembra inoltre sposarsi alle più recenti tendenze delle stesse democrazie liberali ad orientarsi verso un “modello Singapore” in cui la governance non trova ostacolo nei conflitti sociali e nel pluralismo della rappresentanza. La meritocrazia, caratterizzata da competitività e premialità, sembra infatti produrre soggetti docili e subalterni, tutti votati a risolvere i problemi individualmente, senza farsi irretire dalla lotta di classe e dalla mobilitazione collettiva. La stessa “teologicità” dell’idea del merito corrisponde a questa natura repressiva della meritocrazia. Roger Abravanel ad esempio, autore di un best seller sulla meritocrazia (Meritocrazia, 2007), di nessuno spessore scientifico (anch’egli peraltro fraintende l’opera di Young), ma di interessante significato sociologico-culturale, tesse non a caso l’elogio del “modello Singapore”.

Rispetto a questo quadro, soprattutto dopo la crisi economica del 2008, l’elogio della meritocrazia non è più così pacifico, sebbene ancora maggioritario. Una lettura ispirata al pensiero critico [6] sottolinea infatti come da un lato il discorso dominante nella pubblicistica mainstream e nei mezzi di comunicazione sulla meritocrazia non si incroci mai con il problema degli strumenti per garantire uguaglianza di opportunità sociali ed economiche e, dall’altro, come queste stesse non siano comunque sufficienti a garantire a tutti i soggetti la libertà dal bisogno. Ciò svelerebbe quindi il carattere ideologico del discorso meritocratico, volto in realtà non tanto a garantire giustizia, ma a legittimare la diseguaglianza. Una sorta, quindi, di teodicea del turbocapitalismo. Chi è indietro nella scala sociale se lo è meritato e chi detiene i privilegi, all’opposto, lo merita per il suo talento e spirito di iniziativa. Non bisogna occuparsi di elevare la società nel suo complesso, ma di selezionare una élite di eccellenze che guidino la società, prendendo velocemente le giuste decisioni ispirate ai criteri dell’efficienza economica.

Tale logica viene poi trasposta a livello di gruppi umani, distinguendo i cittadini meritevoli da quelli non meritevoli (neppure cittadini, nel caso degli immigrati clandestini), che vanno perseguiti e non aiutati (“punire i poveri” ), così come i popoli rispettabili devono sanzionare (fino a bombardare) gli “stati canaglia”.

Per il pensiero critico, in ultima analisi, la meritocrazia è da respingere non come criterio per attribuire i ruoli professionali attraverso procedure non arbitrarie, ma come valore fondante della distribuzione del potere e dei diritti. Non è, cioè, una società giusta quella che si fonda sulla meritocrazia, ma è la meritocrazia (nel senso circoscritto or ora detto) che fiorisce quando vi sia una società (socialmente) giusta.


NOTE


[1] Per una rideclinazione di questi temi nel quadro post-fordista cfr. MARRAMAO, Giacomo, «Montezemolo? Una retorica del merito grave e discriminatoria», in Liberazione, 2 giugno 2007; ACCARINO, Bruno, «Meritocrazia come premio di obbedienza», in Il manifesto, 25 giugno 2008.

[2] MANNUCCI, Cesare, Prefazione a YOUNG, Michael, L’avvento della meritocrazia. 1870-2033, Milano, Edizioni di Comunità, 1962 [ed. orig.: The rise of the meritocracy, 1870-2033 : an essay on education and equality, London, Thames and Hudson, 1958] p. 22. Presso lo stesso editore nel 2014 è uscita una nuova edizione, che, però, non solo non ripresenta la Prefazione di Mannucci, ma appare priva di ogni apparato critico.

[3] GIDDENS, Anthony, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia (1998), Milano, Il Saggiatore, 1999, pp. 102-103.

[4] Ibidem, p. 10.

[5] YOUNG, Michael, «Down with meritocracy», The Guardian, 28 giugno 2001.

[6] Mi riferisco a CINGARI, Salvatore, Dalla distopia elitarista alla teodicea della diseguaglianza, in CINGARI, Salvatore, SIMONCINI, Alessandro, (a cura di), Lessico post-democratico, Perugia, Perugia University Press, 2016, pp. 97-122 (il volume è scaricabile gratuitamente in rete: https://www.unistrapg.it/sites/default/files/docs/university-press/lessico-postedemocratico.pdf).

Bibliografia essenziale

Bibliografia essenziale

  • ABRAVANEL, Roger, Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto, Milano, Garzanti, 2008.
  • BELL, Daniel, «On meritocracy and equality», in The public interest, 29, 1972, pp. 1-40.
  • BELL, Daniel A., The China model. Political meritocracy and the limit of democracy, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2015.
  • CINGARI, Salvatore, Dalla distopia elitarista alla teodicea della diseguaglianza, in CINGARI, Salvatore, SIMONCINI, Alessandro (a cura di), Lessico post-democratico, Perugia, Perugia University Press, 2016, pp. 97-122.
  • DA EMPOLI, Giuliano, La Guerra del talento. Meritocrazia e mobilità nella nuova economia, Venezia, Marsilio, 2000.
  • DELLA VOLPE, Galvano, Rousseau e Marx (1962) in ID., Rousseau e Marx, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 114-136.
  • FISCHER, Lorenzo, Meritocrazia, in BOBBIO, Norberto, MATTEUCCI, Nicola (a cura di), Dizionario di politica, Torino, UTET, 2004 (1a ed. 1976), pp. 631-633.
  • GOLDTHORPE, John H., JACKSON, Michelle, «La meritocrazia dell’istruzione e i suoi ostacoli», in Stato e mercato, 82, 2008, pp. 31-59.
  • LAW, Donald, VADAKETH, Sudhir (a cura di), Hard Choices: Challenging the Singapore consensus, Singapore, NUS Press, 2014.
  • PINTO, Valeria, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Napoli, Cronopio, 2012.
  • RAWLS, John, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1982 [ed. orig.: A theory of justice, Cambridge, Mass., Belknap Press of Harvard University, 1971].
  • ROSANVALLON, Pierre, La società dell’uguaglianza, Roma, Castelvecchi, 2013 [ed. orig.: La société des egaux, Paris, Éditions du Seuil, 2011].
  • YOUNG, Michael, L’avvento della meritocrazia, Milano, Edizioni di Comunità, 1962 [ed. orig.: The rise of the meritocracy, 1870-2033. An essay on education and equality, London, Thames and Hudson, 1958].

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Lord Peter Hennessy rilegge Michael Young

Conferenza di Lord Peter Hennessy su Meritocracy di Michael Young.

Una revisitazione critica del concetto di meritocrazia

Una revisitazione critica del concetto di meritocrazia.

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