ISSN: 2038-0925

Italia e vita

«Oggi, or è un anno, la vergine Vittoria – quella medesima che nel solstizio adusta aveva falciato le messi d’Italia e i battaglioni imperiali – scoteva dalle sue penne la brina d’autunno e, pontado il piede nudo su l’erba dell’argine nutrita di sangue, spiccava dalla riva destra del Piave quel volto stupendo che poi doveva essere arrestato dall’armistizio infausto». Comincia così il proclama ai fiumani del 24 ottobre 1919, anniversario della battaglia di Vittorio Veneto, con cui D’Annunzio rievoca l’ultima e decisiva prova dell’Italia nella Grande guerra. Con efficace figura retorica, la «Vittoria» è qui personificata nei panni di una fanciulla alata («Nike», nella mitologia greca), che dalle sponde insanguinate del fiume Piave, ossia la linea d’assestamento dell’esercito italiano dopo la rotta di Caporetto, avanza e sbaraglia il nemico. I frutti della conquista sono però vanificati, perché all’Italia non vengono assegnate le terre che le spettano. L’impresa di Fiume è stata concepita per porre rimedio a quest’ingiustizia, altrove definita da D’Annunzio «vittoria mutilata». L’allusione contenuta nell’inciso è alla «battaglia del solstizio», combattuta da italiani e austroungarici nel giugno 1918, così battezzata dal poeta nel testo Il comando passa al popolo. XXIII giugno MCMXIX, compilato nella ricorrenza dell’evento («Or è un anno la battaglia del Solstizio sfolgorava in un mattino lavato e rinfrescato dall’acquazzone notturno»).

L’intero scritto costituisce un atto d’accusa al governo italiano, incapace di difendere gli interessi dell’Italia nella conferenza della pace di Parigi, considerata un «venerando concilio di falsari» («i nostri delegati avevano abbandonato con animo di vinti le tavole delle sorti dove erano rimasti seduti fin dal primo giorno con animo di vinti»). Con perfetto capovolgimento di giudizio, la spedizione fiumana è lodata quale unica causa veramente patriottica. In grado di scuotere l’attenzione del lettore tramite domande dirette e imperativi («Ve ne ricordate, Fiumani?», «Non era questo il vostro proposito vero? Ditelo»), il testo è condito di aforismi («Un cuore profondo ha detto: “La più bella riconoscenza è di chi dona e non di chi riceve”»), rimandi a Dante, padre della lingua ed emblema del patriottismo italiano («Per lei, di secolo in secolo, si serbò italiano il Quarnaro di Dante»), motti latini («HIC MANEBIMUS OPTIME»), richiami a personaggi insigni della storia dalmata (il fondatore Giovanni Battista d’Arbe, vissuto fra Quattro e Cinquecento) e veneziana (il doge Ordelafo Faliero, duca di Croazia nel 1115).

Le interconnessioni fra letteratura e politica sono evidenti nel simbolismo della fiamma, che D’Annunzio, autore nel 1900 del romando Il Fuoco, riprende in parte dal cristianesimo, in parte dalla tradizione antica. Cucita sull’uniforme degli arditi, motivo per cui Fiume è soprannominata «città olocausta» («consumata dal fuoco tutta»: lettera del 27 novembre 1919) alla vampa che arde il poeta associa l’eroismo, la volontà, la luce contrapposta al grigiore dell’esistenza borghese, inserendola nel presente scritto («Potrebbe rinnegare la sua anima colei che della sua anima ha fatto il fuoco impenetrabile di tutti i suoi focolari? Parlate»).

In un miscuglio di prosa forbida e aggressiva («contro le razze da presa e contro la casta degli usurai»), dosando con sapienza metafore cristologiche («La sua mano maschia, tesa verso la Patria nell’atto del dono perpetuo, si ritrarrebbe col sacchetto dei trenta denari») e sottintesi alla cronaca coeva («quella giustizia vera da un maniaco gelido crocefissa con quattordici chiodi spuntati», vale a dire quattordici punti del programma del presidente americano Wilson), «Italia e vita» è un tipico esempio di quella commistione fra arte e politica che trovò a Fiume, nella parentesi dannunziana, una messa in scena originale e moderna.

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