Devenir historien-ne: post #14
Prosegue la partnership avviata con Devenir historien-ne, il blog di informazione storica di Émilien Ruiz, Assistant Professor in Digital History presso il Dipartimento di Storia di Sciences Po a Parigi. Questo mese proponiamo la traduzione del post «À propos des sources».
La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.
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di Émilien Ruiz
L’obiettivo dell’articolo è proporre, attraverso la presentazione di alcuni elementi introduttivi di carattere generale, una riflessione finalizzata a definire con più chiarezza possibile cosa sia una fonte e cosa si intenda per “critica delle fonti”.
Che cos’è una fonte?
Per la scuola metodica1 della fine del XIX secolo «la storia si fa coi documenti». Nella loro opera di riferimento, che ancora oggi merita una lettura attenta da parte di ogni apprendista storico, Charles – Victor Langlois e Charles Seignobos spiegavano (nel 1898):
«La storia si fa coi documenti. I documenti sono le tracce che le idee e gli atti degli uomini del passato hanno lasciato. Tra le idee e gli atti degli uomini sono molto pochi quelli che lasciano tracce visibili e queste, quando esistono, è raro che possano durare nel tempo: basta un incidente e sono cancellate. Tutti i pensieri e le azioni che non hanno lasciato tracce, né dirette né indirette, o le cui testimonianze sono scomparse, per la storia sono perduti: è come se non fossero mai esistiti. A causa della mancanza di documenti, la storia di lunghissimi periodi del passato dell’umanità rimarrà per sempre inconoscibile. Perché niente può sostituire i documenti: nessun documento, nessuna storia.»2
Uno dei limiti del metodo proposto da una scuola più volte definita “positivista” e zelante sostenitrice di una “storia degli eventi”, se non addirittura di una storia “storicizzante”3, deriva dalla sua interpretazione eccessivamente limitante di che cosa questi “documenti” siano (riducendoli ai soli “testi scritti”) e da una visione troppo ristretta di ciò che potrebbero essere gli oggetti dello storico:
«La quantità dei documenti esistenti, se non di quelli noti, è conosciuta: il tempo, a dispetto di tutte le precauzioni che ai nostri giorni vengono prese, concorre a diminuirla senza sosta; non aumenterà mai. La storia dispone di una scorta di documenti limitata; i progressi della scienza storica sono limitati di conseguenza. Quando tutti i documenti saranno conosciuti e avranno subito gli interventi necessari a renderli utilizzabili, l’attività accademica sarà terminata. Per alcuni periodi del passato di cui disponiamo solamente di rari documenti si prevede già che il lavoro dovrà fermarsi entro una o due generazioni al massimo. Gli storici a quel punto saranno costretti a ripiegare sempre più verso periodi moderni»4.
Beninteso, da allora questa visione limitante di quello che potrebbe essere il mestiere dello storico e la sua materia prima è stata rimessa in discussione. In particolare, sono i confini delle fonti sfruttabili in storia ad essersi notevolmente ampliati, soprattutto sotto l’impulso della scuola delle Annales5. Così, per esempio, nel 1953 Lucien Febvre scriveva:
«La storia si fa con i documenti scritti, senza dubbio. Quando ci sono. Se non ce n’è nessuno, però, può e deve essere fatta anche senza. Con tutto ciò che l’ingegno dello storico può permettergli di utilizzare per produrre il proprio miele quando i fiori che userebbe normalmente non sono disponibili. Quindi, con delle parole. Con dei segni. Con dei paesaggi e delle tegole. Con le forme dei campi e le erbacce. Con le eclissi di luna e i collari da traino. Con le perizie delle pietre da parte dei geologi e le analisi di spade in metallo da parte dei chimici. In sostanza, con tutto quello che, essendo dell’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, rappresenta la presenza, l’attività, i gusti e i diversi modi di essere tipici dell’uomo. Non è forse la parte più appassionante del nostro lavoro di storici quella che ci richiede di fare uno sforzo costante nel far parlare le cose mute, nel far dire loro ciò che queste di per sé non dicono sugli uomini e delle società che le hanno prodotte e infine nel creare tra loro quella vasta rete di solidarietà e di aiuti che supplisce all’assenza del documento scritto?
Non c’è statistica, né demografia, né altro: risponderemo con la rassegnazione a questa carenza? Essere storico, al contrario, significa non rassegnarsi mai. È sempre un tentare, provare qualsiasi cosa per riempire i vuoti dell’informazione. La parola d’ordine è: ingegnarsi. Sbagliarsi o, piuttosto, buttarsi venti volte con entusiasmo in un cammino pieno di promesse per poi accorgersi che non conduce dove si vorrebbe andare. E pazienza, vorrà dire che si ricomincerà da capo»6.
Da questo punto di vista, non bisogna lasciarsi fuorviare dal termine «archivi». È vero che alla base del mestiere dello storico ci sono «gli archivi», ma non nell’accezione di archivio restrittiva come «documenti amministrativi», ma nella loro definizione più ampia, da ritrovarsi, come ricordava recentemente Vincent Duclert, nella definizione stessa di archivi data dalla legge del 3 gennaio 1979: «Gli archivi sono l’insieme dei documenti, quali che siano la loro data, la loro forma e il loro supporto, prodotti o ricevuti da qualsiasi persona fisica o morale e da qualsiasi servizio o organismo pubblico o privato nell’esercizio della loro attività»7.
La documentazione primaria, i vostri «archivi», può essere quindi costituita da tutto l’immaginabile: dal diario personale all’e-mail, passando per oggetti, canzoni, fotografie, film, interviste, statistiche, ecc.
Criticare una fonte?
Come l’utilità della lettura di un’opera non è da ritrovarsi solo nella possibilità di identificare i fatti che potranno poi essere citati, così anche l’utilizzazione delle fonti presuppone un lavoro critico.
Rispetto a questo, nonostante i profondi cambiamenti occorsi al metodo storico negli ultimi decenni, la sensazione è che il principio di base sia rimasto lo stesso che era stato enunciato dalla scuola metodica: le critiche, interne ed esterne, rimangono al centro dell’analisi storica. Una fonte, qualunque essa sia, di per sé non dice niente, ma è un indizio che bisogna «far parlare».
La definizione proposta da Langlois e Seignobos sembra quindi sempre valida e, a condizione di tenere a mente le linee guida formulate da Febvre, merita un’attenzione particolare:
«Ciò posto, per definire quale sia stata la causa prima della creazione di un documento scritto, ovvero identificare quale sia la relazione che lega quel documento a quel fatto, bisogna ricomporre tutta la serie di cause intermedie che hanno prodotto il documento stesso. È necessario ricostruire il susseguirsi delle azioni compiute dall’autore del documento partendo dal fatto principale che lui ha osservato fino al manoscritto (o all’opera stampata) di cui noi oggi disponiamo. Si riprende questa sequenza all’inverso, partendo dall’analisi del manoscritto per arrivare fino al fatto originale. Questo è l’obiettivo e il processo dell’analisi critica.
Prima di tutto, si osserva il documento. È ancora esattamente quello che era quando è stato prodotto? Non si è deteriorato successivamente? Si cerca di capire come sia stato creato in modo da poterne restituire la forma originale e determinarne la provenienza. Questo primo gruppo di ricerche preliminari, basato su informazioni derivanti dalla scrittura, la lingua, le forme, le fonti ecc., costituisce il campo di azione privilegiato di quella che viene chiamata critica esterna o critica d’erudizione.
Successivamente interviene la critica interna che si occupa, attraverso processi per analogia presi in prestito principalmente dalla psicologia generale, di ricostruire gli stati psicologici attraversati dall’autore del documento. Sapendo quello che l’autore del documento ha scelto di dire, ci si domanda: 1) che cosa ha voluto dire; 2) se ha davvero creduto a quello che ha detto; 3) se ha ragione di credere in quello che ha creduto. Analizzato in questi termini il documento viene condotto ad un punto in cui assomiglia ad una delle operazioni scientifiche su cui si basa ogni forma di scienza oggettiva: diventa un puro oggetto di osservazione e non rimane che trattarlo seguendo il processo metodologico scientifico. Ogni documento ha un valore esattamente nella misura in cui, dopo averne studiato l’origine, sia stato possibile ridurlo ad un’osservazione ben fatta»8.
A prescindere dal documento, bisognerà quindi attenersi alla sua analisi completa. Innanzitutto, per quanto riguarda la sua forma materiale: come si presenta la fonte? Cosa vi permette di consultarla, là dove la state consultando e nello stato in cui si trova al momento in cui la consultate? ecc. Il passaggio successivo concerne «quello che dice» di importante rispetto al vostro oggetto di ricerca. Inoltre, dovrete essere altrettanto attenti anche a «quello che non dice». La mancanza di fonti che vi permettano di chiarire un aspetto del vostro tema di ricerca può essa stessa essere istruttiva, magari anche più di quanto a volte non possa esserlo una profusione di informazioni. Questo vuol dire però che non bisognerà unicamente gettarsi a capofitto sulla documentazione che avrete identificato o limitarsi ad una sua semplice consultazione e fotografia numerica.
A prescindere dalla tipologia di fonti, avrete capito che per poterle analizzare efficacemente è indispensabile rintracciare e prendere in considerazione le condizioni di produzione delle fonti che si vogliono studiare. Questo implica condurre qualche ricerca su coloro che hanno prodotto i documenti che consultate, anche se non sono l’oggetto della vostra ricerca.
Una prima esplorazione?
Se dovessi indicare qualche suggerimento per iniziare una ricerca fatta bene, oltre che un lavoro di definizione preventiva e sfoltimento della storiografia, sarebbe di certo consigliabile fare una «prima esplorazione delle fonti». Questo vuol dire identificare il o i centri in cui poter reperire delle potenziali fonti; accertarsi di quale sia o quali siano i tipi di fonti che vi si possono trovare e che potrebbero essere utili e saper spiegare perché queste sembrino utili a priori.
Aggiungerei che, fin da questa prima tappa, è indispensabile anche cominciare a riflettere sul modo in cui queste fonti potranno essere sfruttate. Ciò non vuol dire essere già definitivi, ma iniziare a pensare, nonostante la ricerca sia ancora ai primi passi, agli eventuali investimenti che sarà necessario fare in termini di formazione specialistica. Prevedete di dover utilizzare un’analisi lessicometrica? Di dover fare delle interviste? Avvalervi di statistiche? Leggere documenti in una lingua morta? Straniera? Lavorare su registrazioni audiovisive? Pensate di costruire un database? Ecc.
Cominciare a pensarci fin da subito vuol dire poter evitare degli inconvenienti durante il corso della ricerca (questo soprattutto nelle lauree magistrali, quando avete a disposizione “solo” due anni, ma anche nei dottorati, la cui durata tende sempre più a ridursi) e assicurarvi della fattibilità del progetto nei tempi di cui disponete, tenendo conto di tutti i fattori. Implica anche la necessità di porvi alcune domande come: potrete lavorare a tempo pieno alla ricerca o contemporaneamente svolgerete anche un’altra attività professionale? Potete permettervi di discutere il vostro lavoro al termine ultimo di scadenza o per vostre necessità personali dovreste poterlo avere pronto prima (questo è il caso per esempio delle discussioni delle tesi di laurea, laurearvi a luglio o a marzo è uguale? Scadono dei bandi che avrebbero potuto interessarvi? Vi potrebbero mancare i requisiti per iscrivervi a qualche corso successivo? Ecc.).
Per saper condurre una riflessione così strutturata fin dai primi mesi è indispensabile leggere delle ricerche originali, consultare delle tesi di laurea e di dottorato… facendo particolare attenzione al tipo di fonti utilizzate e al modo in cui sono state studiate. E, attenzione, non necessariamente all’interno del vostro preciso campo di ricerca! Come per l’analisi storiografica, anche in questo caso non bisogna trascurare i benefici di una serendipità controllata. Questo prevede anche, e soprattutto, di assistere a dei seminari di ricerca dove degli esperti presentano i propri lavori in corso e porre loro delle domande; contattare eventuali specialisti dei metodi che vi interessano per presentare loro il vostro progetto e discutere della fattibilità della vostra ricerca all’interno di una magistrale, un dottorato … Infine, implica la possibilità di seguire eventuali formazioni o assistere a dei laboratori che vi permetteranno, se non di padroneggiare immediatamente le tecniche informatiche, statistiche, linguistiche ecc. che vi servono, almeno di prenderne conoscenza e verificarne l’effettiva utilità nella vostra ricerca.
- Con scuola metodica o École méthodique, si intende la corrente dominante della storiografia universitaria francese dagli inizi della III Repubblica (1870) fino all’avvento dell’École des Annales nel periodo intercorso tra le due guerre mondiali. La scuola metodica viene caratterizzata dalla sua impostazione che identifica la storia come scienza stabilendo un parallelismo tra la critica storica e il metodo scientifico sperimentale. [↩]
- LANGLOIS, Charles-Victor, SEIGNOBOS, Charles, Introduction aux études historiques, Paris, Editions Kiné, 1992 [1898], p. 29. [↩]
- Nella traduzione francese di histoire historisante si fa riferimento ad un disegno della storia limitata alla descrizione degli eventi e delle circostanze della loro concatenazione. [↩]
- LANGLOIS, Charles-Victor, SEIGNOBOS, Charles, op. cit., p. 253. [↩]
- Con scuola delle Annales si intende la corrente storiografica che all’inizio del XX secoli si è opposta al dominante indirizzo positivista. Diretta da due dei più grandi storici francesi, Lucien Febvre e Marc Bloch, l’École des Annales rigettò la storia politica e degli eventi in favore di una storia di stampo economico-sociale e di lungo termine. [↩]
- FEBVRE, Lucien, Combats pour l’histoire, Paris, Armand Colin, 1992 [1a edizione 1953], pp. 487-488. [↩]
- DUCLERT, Vincent, L’avenir de l’histoire, Paris, Armand Colin, 2010, p. 48. [↩]
- LANGLOIS, Charles-Victor, SEIGNOBOS, Charles, op. cit., pp. 38-42. [↩]
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