ISSN: 2038-0925

Devenir historien-ne: post #38

Prosegue la partnership avviata con Devenir historien-ne, il blog di informazione storica di Émilien Ruiz, Assistant Professor in Digital History presso il Dipartimento di Storia di Sciences Po a Parigi. Questo mese proponiamo la traduzione del post «Écrire l’histoire ? Réflexions autour de deux ouvrages d’Ivan Jablonka».

La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.

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Scrivere la storia? Riflessione su due opere di Ivan Jablonka
18 gennaio 2017

di Rémy Besson

Histoire des grands-parents que je n’ai pas eus[1] (2012) e L’histoire est une littérature contemporaine[2] (2014) costituiscono le due facce indivisibili della stessa indagine. Il primo è una biografia sui nonni dell’autore. Il tema si inserisce in un momento storiografico che da qualche anno vede sostituirsi alle testimonianze di Carnefici, vittime, spettatori[3] (Hilberg, 1994) quelle dei loro figli e nipoti (basti pensare a Gli scomparsi[4] di Daniel Mendelsohn, 2006). Ebrei polacchi, Idesa e Matès Jablonka sono inizialmente presentati come oppositori politici perseguitati per il loro coinvolgimento nel partito comunista, poi come esiliati che, rifugiati a Parigi, vivranno braccati fino alla deportazione. La biografia non riguarda tanto quest’ultima fase (deportazione/uccisione a Auschwitz-Birkenau) quanto la loro vita e le condizioni della loro sopravvivenza fino al 1944. Ancora, corrisponde ad un momento storiografico che vede il protagonismo delle uccisioni cedere il passo ad un interesse per la vita ebraica in Polonia e ad un’attenzione alle storie di sopravvivenza, anche temporanea. Questa storia «rasoterra» (per riprendere la formula di Jacques Revel[5]) si occupa di piccoli problemi e grandi gioie, di atti di solidarietà e di amicizia, tradimenti ed abbandoni vissuti da questi individui e dai loro cari negli anni tra il 1920 e il 1944. C’è più quotidianità che eccezionalità, più piccole cose e persone sconosciute che grandi nomi e grandi fatti, i comportamenti e le azioni sono osservate con la lente di ingrandimento dalle prime restrizioni all’istituzione della Soluzione Finale.

Storia riflessiva e lavoro di memoria

Opera storica, Histoire des grands-parents que je n’ai pas eus non si concentra mai esclusivamente sui racconti di vita dei nonni. Essi sono solo la porta d’ingresso per la comprensione delle principali fasi de La distruzione degli Ebrei d’Europa[6] dal punto di vista delle vittime (storia della Shoah). Si tratta sempre di un’opera storica perché tratta della memoria di un gruppo. Infatti, il racconto non è esclusivamente relativo al tempo dei fatti, ma anche a quello dell’indagine, condotta da Ivan Jablonka all’inizio degli anni 2000. Così, attraverso chiavi successive, il lettore comprende come l’assenza della coppia abbia giocato un ruolo nella vita familiare (e dei suoi cari) dopo il 1945. Oltre a ciò, invita anche ad una riflessione sulla storia della memoria delle persone e sul rapporto che la nostra società attuale intrattiene con questo passato. Infine, il libro è un lavoro di memoria svolto utilizzando gli strumenti dello storico, senza che questo crei una contraddizione coi due punti menzionati precedentemente.
Per Ivan Jablonka questo testo rappresenta la possibilità di dare forma ad un passato familiare che non era stato formulato prima (l’autore torna a più riprese sulla mancanza di interesse del padre riguardo a queste questioni tra il 1970 e il 1980). Nel lavoro di scrittura si ritrovano tutti e tre questi temi. La narrazione è così sostenuta dalla costante preoccupazione di trovare forme adatte ai differenti fenomeni analizzati (esilio, scontro, deportazione, ecc) e alle questioni sollevate (carattere esemplificativo o unico di tale o tal’altra esperienza, per esempio).

Lo storico insiste sulla difficoltà di trovare informazioni affidabili. A volte presenta scenari alternativi alle storie principali che racconta. Riporta le informazioni ritrovate in archivio e i problemi di traduzione incontrati. Precisa se quello che racconta si basa su fonti scritte contemporaneamente agli eventi o su testimonianze ottenute appositamente durante la ricerca. Sottolinea le contraddizioni e l’impossibilità di risolvere alcune questioni. Quando non dispone di informazioni sufficienti, non inventa. Però, una volta presentate le fonti sceglie di far rivivere alcuni avvenimenti. Non esita neanche a condividere le emozioni che prova di fronte ad alcune situazioni, avendo sempre cura di segnalare al lettore queste divagazioni.
Questo modo di fare, per uno storico relativamente originale, ha come principale vantaggio di trasportare il lettore all’interno di un racconto che pur rimanendo riflessivo è spesso affannoso. Insistere su questo punto è importante. Jablonka immerge il lettore nell’atmosfera dell’epoca diverse volte, cercando di provocare emozioni e creare empatia. Fa rivivere gli avvenimenti precisando sempre, nel corpo del testo, a quali fonti fa riferimento. Ciò porta ad avere contemporaneamente sia un approccio sensibile al passato che una distanza. Non si tratta mai di sospendere volontariamente la sua credulità, come quando si legge un romanzo. Al contrario, è proprio rimanendo cosciente del carattere culturalmente costruito dei fatti presentati che il lettore è invitato a entrare in contatto con il passato.
Per il lettore appassionato di Seconda guerra mondiale e di storia del genocidio degli Ebrei questo approccio è particolarmente interessante, così come più in generale per chiunque apprezzi un approccio biografico e/o microsociologico. Al contrario, chi è interessato all’epistemologia o alle modalità di scrittura della storia (la scienza della storia storicizzata) troverà la presentazione terribilmente frustrante[7]. Infatti, in Histoire des grands-parents que je n’ai pas eus, Jablonka cerca costantemente di combinare letteratura e storia senza mai esplicitare il tipo di racconto scelto o collegarsi ad altri possibili modi di fare. L’histoire est une littérature contemporaine, pubblicato due anni dopo, è pensato proprio per rispondere a questa possibile frustrazione. Questa seconda opera è una ricerca sulla modalità di mediazione del passato adottata nel primo libro. Costituisce anche un manifesto indirizzato ad un gruppo e una generazione di ricercatori in scienze sociali che sostiene la proposta di una scrittura della storia che si rinnova con la letteratura per allontanarsi dai limiti formali dello scientismo (seconda metà del XIX secolo) e dal relativismo trionfante dall’avvento della svolta postmoderna (ultimo quarto del XX secolo). Le scelte effettuate in Histoire des grands-parents que je n’ai pas eus ben si spiegano con la volontà di rottura nei confronti dei codici attuali di scrittura della storia. Si può parlare di coscienza epistemologica, il cui obiettivo è giungere ad una riconciliazione tra storia e letteratura che si appoggia su una precisa conoscenza della storia della scrittura dalla storia antica (principalmente Tucidide ed Erodoto) al linguistic turn (Hayden White versus Carlo Ginzburg e Pierre Vidal-Naquet). Jablonka propone questo percorso rifiutando l’idea secondo cui la letteratura e la storia manterrebbero con il passato lo stesso tipo di rapporto.

La storia come “letteratura referenziale”

Entrambe queste tipologie di scrittura hanno l’obiettivo di arrivare ad una migliore comprensione del passato, ma non lo fanno nello stesso modo. L’autore si inserisce nel filone della filosofia della storia sviluppato da Paul Ricœur da Temps et récit[8] a La Mémoire, l’histoire, l’oubli[9]. Secondo la formula volontariamente provocatoria dell’autore la storia è una «letteratura referenziale»: gli elementi proposti dallo storico rinviano sempre a un extra-testo che si ritrova (spesso) nell’apparato critico (note a piè di pagina, bibliografia, rimando a documenti di archivio consultati, ecc.). Si tratta quindi di una scrittura obbligata (dal collegamento coi fatti); non si tratta di un’invenzione da cui viene tolto qualcosa (una non-finzione) ma di una letteratura a cui qualche cosa viene aggiunta (il dovere di rinviare il lettore a un riferimento esterno al testo stesso). Questa osservazione porta Jablonka a invitare gli storici a fare uso degli strumenti della finzione – creazione d’immagini, metafore, analessi, ecc. –, che propone di denominare «finzioni di metodo», nella misura in cui sono messi al servizio di una scrittura della storia che non si allontana dalla sua scientificità.
Il percorso fatto attraverso la storia della storia lo conduce anche a rigettare l’idea secondo cui la distinzione metodologica tra letteratura e storia porterebbe a impedire agli scritti storici di acquisire lo statuto di testi elaborati. Si scaglia contro i sostenitori dell’accademia (passati e presenti) che spingono per la redazione di «non-testi confezionati in una non-scrittura»[10]. Questo discorso di obiettività e trasparenza costituisce, secondo lui, una forma illusoria che fa cadere in inganno il lettore sulla natura del testo che viene proposto. Caldeggia un lavoro sulla lingua, non con finalità puramente estetiche (rendere il testo più accattivante e bello)[11], ma per ottenere vantaggi per chi legge in termini di comprensione. Non è tanto una questione di stile quanto di trovare idee in letteratura (per riprendere una formula di Deleuze) che siano in grado di fare comprendere il passato. Ricorda anche che un libro di storia è un mezzo di divulgazione a disposizione del pubblico e che è necessario sapersi adattare alle necessità di chi ne fruisce (o al rischio, altrimenti, di perdere ogni contatto con la società). Inoltre, fa alcune proposte metodologiche che corrispondono, punto per punto, alle scelte da lui effettuate in Histoire des grands-parents que je n’ai pas eus. La presentazione della ricerca e l’uso dell’«io»[12] sembrano modi adeguati ad esplicitare il carattere costruito della scrittura della storia. In più, propone di fare un uso controllato dell’anacronismo e di non esitare a formulare ipotesi controfattuali o di essere, quando è necessario, irrispettosi della cronologia[13]. Ricorda che se tutto quello che è relativo al reale può diventare una fonte, spesso non è altro che lo sguardo (e il lavoro) dello storico a trasformare in fonti delle tracce. Prendendo in considerazione la fragilità e l’incompletezza di qualsiasi lavoro di ricerca, Jablonka pensa che lo storico sia maggiormente in grado di proporre un testo scientifico perché chiaramente inquadrato. Proponendo una scrittura che, integrando i segni che rinviano all’extra-testo, non fa il gioco dell’obiettività, propone una storia riflessiva che permette al lettore di comprendere meglio ciò che è avvenuto. Sottolinea anche che l’obiettivo del ricercatore non è fare la cronaca della storia in sé e per sé, ma permettere una migliore comprensione di quello che è successo a partire dalle domande che ci poniamo nel presente.

Materialità e temporalità della ricerca storica

Queste proposte sono senza dubbio stimolanti, ma ci sono altri tre punti, che in queste due opere non vengono affrontati, che possono essere sottolineati per portare avanti il dibattito epistemologico avviato dall’autore. Il primo punto assente è chiaramente assunto da Jablonka nell’ultima parte di L’histoire est une littérature contemporaine, si tratta di una riflessione rispetto a quali tipologie di supporto mediatico esistano a parte il libro e l’articolo. Sarebbe interessante sviluppare questo tipo di quesito per capire in cosa il cinema, documentaristico o meno (citato a pagina 315), i documentari web, le mostre digitali, i siti di documentazione, le timeline interattive, le enciclopedie partecipative, le cartografie dinamiche sviluppate online, potrebbero ri-dinamizzare le metodologie di intermediazione (questo termine sembra più adattato di quello di scrittura, molto/troppo parola-centrico) del passato proposte dagli storici. Riprenderemo questo argomento nelle conclusioni.
I due punti successivi intendono proseguire la riflessione proposta dall’autore riguardo alla presenza, nei testi storici, di tracce lasciate dall’attività di ricerca. Dal nostro punto di vista, si tratta della volontà di creare una forma che non sia trasparente ma che, anzi, presenti un certo grado di opacità. Per dirlo in altre parole, il tipo di rappresentazione della storia scelto non si basa sull’illusione di una raffigurazione del passato nel presente, ma sulla creazione di un insieme di elementi che ricorda al lettore che sta approcciando un testo prodotto da un ricercatore in un momento preciso, all’interno di una società precisa, in funzione di obiettivi chiaramente definiti. In tale contesto, ci si può interrogare sulla mancanza di uno stato dell’arte storiografico, qui inteso come l’insieme delle conoscenze storiche prodotte su un determinato aspetto del passato nel momento in cui il ricercatore scrive. Mi sembra che oggi una scrittura della storia più riflessiva non passi più unicamente dall’identificazione dello sfasamento temporale tra il tempo dello storico e quello dei fatti, ma anche dalla presa di consapevolezza del fatto che lo storico non è il primo a scrivere dell’argomento. In Histoire des grands-parents que je n’ai pas eus vengono presi in considerazione due tempi diversi (tra l’altro, il punto forte del racconto), il passato degli eventi vissuto da Idesa e Matès Jablonka e il presente della ricerca condotta da Ivan Jablonka. Tra i due vi è solo la memoria dei protagonisti della storia ancora vivi. Se sono stati considerati degli archivi, non sembrano essere giù stati impiegati da altri ricercatori. Tuttavia, esistono dibattiti storiografici attivi su ogni argomento che l’autore approccia (ruolo del Consiglio ebraico o funzione dei Sonderkommando, per esempio), così come sulla possibilità stessa di rappresentare, con metodologia storica, le diverse tappe del genocidio degli Ebrei. Ogni testo scritto su questo tema considera sia il passato dei fatti che il passato/presente dalla storiografia[14]. Queste osservazioni non sono tanto critiche quanto un tentativo di identificare un aspetto su cui potrebbe essere interessante lavorare. Infatti, se Ivan Jablonka riesce a trovare delle soluzioni efficaci per integrare i segni della sua ricerca pur mantenendo il ritmo del racconto sul passato, è certamente più complicato poter fare lo stesso con i lavori di storici precedenti (o contemporanei).
Infine, terzo punto mancante è la consapevolezza della materialità delle fonti. Qualsiasi sia il campo (arte contemporanea, archivistica, genetica letteraria, storia culturale, ecc…), un’attenzione particolare deve essere posta riguardo alle condizioni di produzione, circolazione e conservazione delle fonti stesse. Questo tipo di processo porta a fare la storia delle tracce del passato ancora prima di utilizzarle per fare la storia di ciò che è accaduto. Non ci sono dubbi che Ivan Jablonka, nell’ambito dei suoi studi, abbia portato avanti questo tipo di ricerca. Sarebbe interessante riflettere su quali siano le modalità più adatte per esplicitarlo quando si scrive. La ricerca non corrisponde esclusivamente al momento della scoperta di nuove informazioni in archivio o della raccolta di testimonianza da parte di persone ancora vive, ma è fatta anche di lunghe giornate passate alla scrivania ad analizzare ogni elemento. Si tratta dell’aspetto più laborioso del lavoro dello storico, ma non del meno interessante: si riconoscono i tic di linguaggio, si identificano le variazioni nel tono della voce, la regolarità della grafia di questa o quella parola, l’analisi della singola colorimetria di una stampa fotografica, si osserva il posizionamento della camera, si studiano le ragioni di un’ampia diffusione di un’informazione o della cancellazione totale di un dato essenziale… sostanzialmente, si identifica ciò che è la norma e ciò che vi si allontana. Una scrittura riflessiva della storia potrebbe integrare i segni di questa materialità delle impronte che il passato ha lasciato e che ormai sono arrivate sotto gli occhi, la mano, le orecchie e a volte anche il naso del ricercatore[15]. Di nuovo, è difficile trovare delle soluzioni letterarie che riescano a coniugare i diversi elementi: presenza della ricerca/ricercatore come autore, consapevolezza epistemologica, consapevolezza storiografica, presenza della materialità delle fonti.

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Può darsi che oggi queste questioni si basino tanto su una riflessione sulla lettura e la storia[16] quanto sul tenere in conto il web (digital humanities): quest’ultimo contiene delle fonti mediatiche che i ricercatori in scienze sociali utilizzano ancora troppo poco. La possibilità di pensare a configurazioni singolari tra i diversi supporti (scritto, audio, visuale, audiovisuale, animazione e videogioco) costituisce un grande bacino di «finzioni di metodo» a disposizione degli storici interessati alla creazione di nuovi modelli di mediazione (o scrittura) del passato. Ivan Jablonka, del resto, invita il lettore di L’histoire est une littérature contemporaine proprio ad un processo simile. «Su Internet non c’è bisogno di citare con le note a piè di pagina: un collegamento ipertestuale permette di aprire un PDF, leggere un articolo online o visionare una foto. Le digital humanities creano degli ipertesti che allo stesso tempo possono sia rappresentare che spiegare la realtà. Questa opera totale sarà senza ombra di dubbio la forma che prenderanno le scienze sociali del XXI secolo, modernizzando il culto che gli umanisti hanno per gli originali, “ad fontes”»[17]. C’è un sentiero da seguire, non per forza per essere aggiornati dal punto di vista telematico, ma perché la compresenza online del racconto dello storico e delle fonti (una volta digitalizzate) sulla base delle quali si esprime, conduce a ripensare radicalmente il rapporto tra il testo e ciò che gli è al di fuori che, fino ad oggi, è stato al centro della riflessione sui collegamenti tra letteratura, letteratura referenziale e storia.

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  1. JABLONKA, Ivan, Histoire des grands-parents que je n’ai pas eus, Paris, Seuil, 2012. []
  2. ID., L’histoire est une littérature contemporaine, Parigi, Seuil, 2014. []
  3. HILBERG, Raul, Carnefici, vittime, spettatori, Milano, Mondadori, 1994. []
  4. MENDELSOHN, Daniel, Gli scomparsi, Torino, Einaudi, 2006. []
  5. REVEL, Jacques, L’histoire au ras du sol, in LEVI, Giovanni, Le Pouvoir au village. Histoire d’un exorciste dans le Piémont du XVIIe siècle, Paris, Gallimard, 1989, pp. I‑XXXIII. []
  6. HILBERG, Raul, La distruzione deli Ebrei d’Europa, Einaudi, 1995. []
  7. L’uso del termine “frustrante” non vuole essere inteso come una critica: è esattamente il sentimento che porta il lettore ad interrogarsi sul tipo di scrittura scelto. []
  8. RICOEUR, Paul, Temps et récit, 3 voll., Paris, Seuil, 1983-1985. []
  9. ID., La Mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Seuil, 2000. []
  10. JABLONKA, Ivan, L’histoire est une littérature contemporaine, cit., p. 96. []
  11. In una recensione di questa stessa opera, Dimitri Julien ha scritto che «la scrittura letteraria non è una parte ausiliaria alla metodologia storica, ma ne è elemento attivo e necessario». []
  12. Su questo si può leggere la relazione di Azzurra Mauro. []
  13. Insiste anche sul ruolo dell’emozione. Riguardo a questo fare riferimento alla critica di Florian Besson. BESSON, Florian, «Réinventer la façon d’écrire l’histoire», in Nonfiction.fr, 22 giugno 2015, URL: < http://www.nonfiction.fr/article-7661-reinventer_la_facon_decrire_lhistoire.htm > [consultato il 5 novembre 2022]. []
  14. La mancata valorizzazione di questa dimensione può essere tanto più messa in discussione quanto più l’opera si inserisce con tempestività nel duplice momento storiografico ricordato nell’introduzione (interesse per la vita ebraica e racconto dei figli e dei nipoti). []
  15. Si pensi ai lavori di George Didi-Huberman sulla cultura visuale. []
  16. Oltre che sui rapporti tra storia e cinema, cfr.: DELAGE, Christiane, GUIGUENO, Vincent, L’Historien et le film, Paris, Gallimard, 2004. []
  17. JABLONKA, Ivan, L’histoire est une littérature contemporaine, cit., p. 274. []

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