ISSN: 2038-0925

L’atelier de l’historien-ne: post #45

Per la rubrica L’atelier de l’historien-ne questo mese proponiamo la traduzione del post «La conversation scientifique sur Twitter» Acquis de conscience, curato da Caroline Muller.

La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.

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La conversazione scientifica su Twitter
Pubblicato il 09 febbraio 2021, aggiornato il 10 febbraio 2021

di Caroline Muller e Frédéric Clavert

All’interno del mondo accademico, e più in generale tra chi non è solito utilizzarlo, Twitter gode di una cattiva reputazione. In quante conversazioni informali abbiamo sentito che Twitter raccoglie “il peggio dell’umanità” e “la fogna del pensiero” o che è, più semplicemente, un luogo in cui si perde tempo che potrebbe essere impiegato in attività più utili?
Non bisogna sottovalutare quanto questo ambiente digitale possa essere luogo di molestia, violenza e riproduzione di dinamiche di dominio[]: io stessa (Caroline) ne ho fatto ripetutamente esperienza. Tuttavia, ci sembra importante avviare una discussione anche su quello che riguarda tutto il resto: la conversazione scientifica e intellettuale che vi si svolge è troppo spesso ignorata o screditata. Ci sono molti modi di definire «la discussione scientifica» le cui regole cambiano significativamente a seconda dei campi disciplinari. Ma da qualche parte bisognerà pur cominciare: noi consideriamo «discussione scientifica» un fruttuoso scambio di idee, di fonti e competenze che possa portare all’arricchimento generale dei nostri processi di ricerca. Nella sua forma più tradizionale la discussione scientifica avviene nei seminari, nelle conferenze, nelle università durante le discussioni dei progetti di ricerca o le specializzazioni e nei dibattiti collettivi riguardo ai testi sottoposti alle riviste. Con l’avvento di Internet sono emersi altri spazi di discussione come i giornali di ricerca digitali, chiamati da Marin Dacos e Pierre Mounier luoghi di «discussione scientifica decentrata»[] Si obietterà che il lavoro puntuale richiede esperti che online sono difficili da trovare. In questo caso, bisognerebbe sostenere che la discussione scientifica può avere luogo solo durante una discussione di laurea tra ultraspecialisti – e poi e poi. Chi è che in un convegno non ha mai fatto esperienza di panels che riunivano interessi eclettici? Dovremmo quindi convenire che non esiste nessuno spazio – neanche convegni o conversazioni informali tra colleghi di altre discipline – in cui si può avere una discussione scientifica? Non è possibile ridurla esclusivamente all’approfondita analisi di questa o quell’altra ipotesi storiografica – sebbene questo tipo di scambi, sui social, qualche volta esistano. Per noi, contrariamente all’immagine di superficialità delle conversazioni sui social media, si tratta di prendere sul serio l’idea secondo cui Twitter è un luogo di conversazione scientifica, ovvero uno spazio in cui si elabora una discussione attorno ad un’opera, un’ipotesi, delle pratiche di ricerca, un luogo in cui si intrecciano reti di confronto che fanno sistema con gli altri spazi della conversazione scientifica citati precedentemente.

Una comunità di ricerca e apprendimento

Twitter è un social network fondato nel 2006[].Inizialmente era orientato verso lo small talk: invitava gli/le utenti a discutere di cosa facessero (la pagina d’accoglienza chiedeva What are you doing?). La funzione principale era – e resta – molto semplice: pubblicare un messaggio di 140 caratteri (da settembre 2017 sono 280), circa un SMS, su twitter.com. Molto velocemente però gli/le utenti sono usciti/e dall’utilizzo previsto e hanno cominciato a parlare di attualità. Per tappe: Twitter passa da What are you doing? a What’s happening? e, adattandosi ai cambiamenti, la società californiana integra nuove funzionalità sulla piattaforma (gli hashtag – parola preceduta da un cancelletto che serve in particolare per collegare le discussioni sullo stesso tema – il retweet – una citazione, tale e quale o commentata, di un alto tweet – e il preferito di oggi, il like). Twitter è così diventato in qualche anno la piattaforma su cui l’informazione (in senso ampio) ha circolato sempre più velocemente[]: nel 2009, l’ammaraggio d’urgenza di un aereo nell’Hudson è stato commentato su Twitter prima ancora che ne parlasse la stampa.

FONTE: Homepage di Twitter – 14 dicembre 2006

Questa capacità di Twitter di far circolare le informazioni ogni giorno più velocemente è sia un pregio che un difetto[]– quest’ultima possibilità l’ho notata (Frédéric) in occasione delle polemiche sorte a proposito delle commemorazioni sulla battaglia di Verdun. Comunque, la circolazione memetica delle informazioni su Twitter non deve far passare inosservata l’esistenza di discussioni più ristrette che possono risultare molto fruttuose. Rimanendo sul caso del Centenario della Grande Guerra: l’attività sviluppata attorno al database dei Morts pour la France, per esempio, si è creata intorno all’hashtag #1j1p. Questa base dati è anche stata indicizzata (alcuni/e partecipanti hanno trasformato immagini in testi veri e propri) prima del 11 novembre 2018, facilitandone l’utilizzo sia a fini memoriali (l’omaggio ai Morts pour la France) che scientifici.

Twitter è contemporaneamente sia una piattaforma mondiale che crea una sorta di comunità globale, che una comunità di comunità più piccole, a volte autonome, capaci di sviluppare azioni e discussioni puntuali, precise e importanti, come quelle intraprese da una di loro: la comunità accademica.

Se parliamo di ciò che conosciamo meglio – gli storici e le storiche – questa comunità è già stata oggetto di varie osservazioni[]. Citiamo il capitolo pubblicato da Caroline su Goût de l’archive à l’ère numérique[], che affronta diversi tipi di discussione effettuati in questa comunità, anche quando si trasformano in controversie.

Una ricchezza è che la rete è ampiamente popolata da account dalla natura più diversa: istituzionali (università, riviste, laboratori), di monitoraggio di progetti di ricerca, legati a progetti pedagogici, di case editrici e anche – è a loro che ci dedichiamo in questo post in modo particolare – di singole persone (ricercatori/ricercatrici, insegnanti, personale legato alla ricerca e all’insegnamento superiore). Tramite tweet, questi account personali raccontano la quotidianità della vita di ricerca o dell’insegnamento e si rivolgono al pubblico più disparato, da quello super specializzato (a cui magari si fanno domande su una precisa indicazione bibliografica), a quello interessato (condivisione e analisi di un ritrovamento d’archivio)[], a quello più generalista quando il discorso mescola considerazioni professionali, personali e reazioni a fatti d’attualità. È la ragione per cui è così difficile definire con precisione le caratteristiche che un «Twitter scientifico» dovrebbe avere, se non constatando come i profili stessi si definiscono – e comunque non sempre è sufficiente, perché molti profili preferiscono l’anonimato e scelgono di non menzionare un collegamento istituzionale o uno status preciso.

L’immediata circolazione dell’informazione scientifica

Tutti questi account nutrono la circolazione dell’informazione scientifica in diretta: le riviste e/o ricercatori e ricercatrici annunciano le pubblicazioni che vengono poi diffuse nei circoli di abbonate/i. Alcune riproducono gli indici e autori e autrici possono anche presentare i propri testi e immagini a sostegno del discorso. Queste anticipazioni editoriali possono assumere anche la forma di vere e proprie recensioni.

È ormai abitudine proporre delle live-tweet (registrazioni in diretta) delle discussioni di dottorato o di abilitazione all’insegnamento che permettono a coloro che non sono presenti di avere un’idea del contenuto del dibattito. Questo approccio è ancora più interessante se si considera che il relatore o la relatrice è cosciente di rivolgersi anche a un pubblico meno esperto e quindi può sforzarsi di adattare il discorso. Abbiamo potuto seguire una discussione di tesi sulle donne della nobiltà castigliana del XV secolo (2019) e sulle reti della resistenza nel periodo 1940-1945 (2020). Recentemente, con la pandemia, è diventato possibile assistere alle discussioni che ci interessano direttamente in videoconferenza: l’uso di Twitter per questa finalità è stato quindi ridotto.

Troviamo discussioni ricorrenti sul tema della bibliografia: l’hashtag #VendrediLecture permette di parlare di cosa ognuno/a stia leggendo. In occasione di un sondaggio lanciato da Caroline, molte risposte riguardavano la circolazione dei libri. Citato da un nostro collega dell’Università del Lussemburgo, Benoît Majerus, l’hashtag #histpsych permette di mantenersi aggiornati/e sulle più recenti pubblicazioni di storia della psichiatria. Su Twitter, le discussioni bibliografiche sono uno spazio di conversazione scientifica, di confronto rispetto all’importanza di leggere l’una o l’altra pubblicazione e di analisi delle diverse scuole storiografiche.

Queste discussioni non si limitano al «virtuale». Noi ne siamo un buon esempio: il progetto Le goût de l’archive à l’ère numérique è nato da uno scambio di tweet quando non ci conoscevamo neanche ed è partito prima ancora che ci incontrassimo per la prima volta in uno spazio «fisico». Più generalmente, da queste discussioni derivano degli incontri, delle pubblicazioni, delle lezioni e tanto altro: i dibattiti su Twitter nutrono ed arricchiscono le nostre attività scientifiche e di insegnamento.

Questi scambi esistono nonostante i limiti della rete: un tweet è per forza di cosa un «oggetto» particolarmente limitato: 280 caratteri. Le critiche più frequenti riguardano proprio questa brevità. Come si può sviluppare un’idea in così poco spazio senza caricaturarla o impoverirla troppo? Si oppone così la complessità e la finezza dei ragionamenti affrontati in spazi ad hoc con la povertà delle discussioni su Internet. Questa tesi trascura però sia l’immaginazione e la creatività di chi utilizza Twitter sia l’utilizzo dei “link” al web. Le pratiche d’uso sono fondamentali per comprendere la piattaforma: grazie all’impiego di thread (ovvero un susseguirsi di tweet legati l’uno con l’altro per creare frasi intellegibili) è possibile sviluppare discorsi completi. Questa strategia viene generalmente utilizzata per raccontare la storia ad un pubblico ampio o per presentare scoperte archivistiche. Fermarsi alla brevità dei tweet vuol dire disconoscere il ruolo che i collegamenti hanno nelle conversazioni sul Web; un link può argomentare un esempio, rinviare a documenti d’archivio, a un articolo di una rivista, un libro, ecc… Twitter, come Facebook, Snapchat, TikTok ecc. dovrebbe essere riconsiderato all’interno di un contesto digitale ben più ampio.

Un appello lanciato l’8 febbraio ci ha permesso di raccogliere diverse testimonianze su ciò che Twitter ha apportato al lavoro scientifico delle dozzine di ricercatori e ricercatrici che hanno risposto. Basta cliccare sul link per esplorare le risposte.

una grande apertura dello sguardo, che si tratti di argomenti o di approcci, e, conseguentemente, una grande apertura epistemologica, metodica e bibliografica

Ciò non significa tuttavia che Twitter sia uno spazio incantato in cui chi fa ricerca può migliorarsi come in sogno in un campo di fiori e sotto un sole dorato, ma ne parleremo più avanti.

Uno spazio di dibattito scientifico

A volte, un dibattito su Twitter diventa una vera e propria discussione. In alcuni casi, ricercatori e ricercatrici sono stati opposti a dichiarazioni politiche: ad esempio gli storici e le storiche che hanno reagito alle parole di Emmanuel Macron su Philippe Pétain nel novembre 2018[] o i/le sociologhi/e che si sono dovuti/e difendere dall’accusa di aver diffuso una “cultura della scusa”, formula di Manuel Valls del 2016[]. Queste controversie possono anche vedere opporsi membri della comunità accademica. Ci soffermiamo su due esempi: la recente uscita di un libro di Stéphane Beaud e Gérard Noiriel, le peripezie della “commissione Duclert” sugli archivi francesi relativi al Ruanda.

La recente pubblicazione del libro di Gérard Noiriel e Stéphane Beaud, Race et sciences sociales: Essai sur les usages publics d’une catégorie [] ha creato terreno fertile per profonde e serrate discussioni a proposito del concetto di razza ed intersezionalità nelle scienze sociali. La conversazione in realtà è iniziata ancor prima dell’uscita del libro, con un articolo intitolato «Impasse des politiques identitaires»[] pubblicato dai due autori su «Le Monde Diplomatique». Ha suscitato numerose reazioni, argomentate su supporti diversi: threads e post pubblicati su Mediapart poi ricondivisi e discussi su Twitter. L’uscita del libro ha confermato l’intensità del dibattito, poi trasformato in controversia. Le recensioni critiche si sono susseguite: Pascal Marichalar si è preso il tempo di tornare sulla lettura e concentrarsi sui problemi che a suo avviso il libro pone: l’impasse su tematiche centrali all’argomento, l’assenza di riferimenti ad un campo di ricerca già molto ricco, una presentazione falsata dei ricercatori e delle ricercatrici che utilizzano il concetto di razza. Il thread include una ventina di tweet che rimandano a dei riferimenti bibliografici. Sarebbe inutile ridurre l’intera critica a degli attacchi personali volti per nuocere agli autori; in questa controversia Twitter risulta essere uno spazio particolarmente interessante da analizzare, perché vi si trovano sia ricercatori e ricercatrici che dibattono tra loro, che le letture e le discussioni da parte di un pubblico più ampio, senza dimenticare le argomentazioni che si sviluppano. Vengono considerate anche la lunga carriera e gli importanti contributi dei due autori alle loro discipline, e detrattori e detrattrici sono invitati/e ad andare a leggere i loro lavori. La controversia è sia scientifica che politica: alcune critiche si concentrano sul metodo degli autori e sui dati su cui scelgono di appoggiarsi, altre si interrogano invece più direttamente sulle conseguenze politiche di un approccio che rifiuta di “vedere” la razza nelle configurazioni sociali.

Le rappresentazioni della rete come luogo di linciaggio e/o inintelligenza collettiva possono purtroppo condurre ad un’erronea lettura delle discussioni che vi si svolgono. Il 28 ottobre 2020, le «Canard Enchaîné» e Guillaume Ancel mettono in discussione ciò che la storica Julie d’Andurain afferma in una nota del dizionario dedicata all’operazione Turquoise nel contesto del genocidio dei Tutsi in Ruanda (1994). I testi di Guillaume Ancel e di Théo Englebert su Mediapart contestano l’utilizzo da parte della storica di fonti distorte al servizio del revisionismo a sostegno della tesi del doppio genocidio. Quando Théo Englebert pubblica il suo articolo la discussione si sposta su Twitter, dove il testo viene commentato e giunge negli ambienti universitari. Dei tweet – veementi ma non offensivi – tendono a tirare in causa sia la storica che altri colleghi. Il 6 novembre, l’Association des historiens contemporanéistes de l’enseignement supérieur et de la recherche invia a tutti i suoi contatti un messaggio pubblico di sostegno a Julie d’Andurain. L’associazione:

ci tiene a esprimere con forza la sua indignazione per la campagna calunniosa di cui è stata vittima sui social network la collega Julie d’Andurain, professoressa di storia contemporanea all’Université de Lorraine e membro della Commission de recherche sur les archives françaises relatives au Rwanda et au génocide des Tutsi (1990-1994). È per quest’ultimo titolo che viene scandalosamente accusata di aver «pubblicato degli scritti che si poggiano su tesi negazioniste». Sul ruolo della Francia nella tragedia del Ruanda vi sarà senz’alcun dubbio, in seguito alla pubblicazione dei risultati di questa Commissione presieduta da Vincent Duclert, un ampio dibattito scientifico che dovrà rispettare le regole deontologiche della ricerca storica: basarsi su argomentazioni e contro-argomentazioni fondate sull’esame critico e incrociato della documentazione; sviluppare delle analisi contestuali dei fatti e delle loro rappresentazioni sociali all’epoca considerata; svolgersi nel mutuo rispetto tra i contradditori, se ci sono diverse interpretazioni; impedire gli insulti, le invettive o gli attacchi personali. Nell’attuale campagna lanciata sul Web contro Julie d’Andurain, i messaggi sono contraddistinti dall’odiosa volontà di delegittimare la collega per castrare il dibattito ancor prima che possa iniziare

Il testo è particolarmente interessante per la percezione dei social network che se ne può trarre: “l’ampio dibattito che dovrà rispettare le regole deontologiche” viene contrapposto agli “insulti, le invettive o gli attacchi personali” considerati tipici dei social (in questo caso, di Twitter); si aggiunge poi che viene fatta una “campagna” contraddistinta da una volontà di odio. Ma la campagna è costituita principalmente da tweet che si rifanno alle pubblicazioni – argomentate – di G. Ancel e T. Englebert. In questo caso si può constatare che l’irrigidimento di fronte alle critiche rivolte alla collega è la conseguenza di una percezione della rete come di un luogo irrazionale in cui l’esistenza di una discussione argomentata non può neanche essere presa in considerazione. Il riflesso disciplinare ha preso il sopravvento su una puntuale analisi dei contenuti dei tweet che criticavano il testo di Julie d’Andurain. Con l’intervento di altri/e colleghi/e – con posizioni importanti nel campo accademico e la cui legittimità era difficilmente contestabile – l’Associazione è ritornata sui propri passi riconoscendo il proprio errore e annunciando le dimissioni della direzione. Si può comunque osservare che il secondo messaggio diffuso persiste e sottoscrive la presentazione dei “social network”, precisando che la reazione iniziale è da legarsi al fatto che la storica “era stata tirata in ballo sui social e che il loro crescente ruolo nei dibatti accademici e la violenza erano risultati inquietanti”. Non sappiamo cosa che cosa sia successo su Facebook, ma un’accurata analisi dei tweet non mostra una campagna d’odio contro Julie d’Andurain quanto piuttosto circa trecento messaggi in cui si richiedeva un intervento da parte della comunità universitaria nel mettere in discussione la legittimità della commissione di lavoro sugli archivi. Allo stesso modo, ci si può chiedere su cosa ci si basi per affermare “il crescente ruolo” dei social network nei dibattiti accademici e in cosa ciò sarebbe problematico: su quali dati si fonda questa affermazione? Si tratta di intuizioni? Di esperienze vissute? Oppure di un pregiudizio sulle conversazioni da social network? Avremmo potuto aspettarci che, lungi dal delegittimare ciò che era appena accaduto su Twitter, l’associazione fosse contenta del fatto che la comunità storica avesse potuto trovarvi degli interlocutori e delle interlocutrici così attenti/e rispetto ai testi prodotti a proposito del Ruanda.

Con questi due esempi è chiaro che lo spazio di Twitter non è quello della calma ovattata che regna nei buffet da colazione ai congressi: le critiche che vi si possono trovare espresse sono molto più acute e dirette rispetto alla “domanda in forma di rimprovero” tradizionalmente posta alla fine di una conferenza.

La conversazione scientifica che viene avviata non è al riparo dalle violenze che esistono negli scambi accademici “in real life”. Potrebbe anche risultare particolarmente scomoda a causa dei codici di discussione adottati, che raramente sono espliciti come nel corridoio di un laboratorio o in una sala da convegno, anche se il funzionamento della rete favorisce l’orizzontalità e il livellamento delle gerarchie – comunque sempre presenti– dei ricercatori e delle ricercatrici che si esprimono. Bisogna darsi del tu? In che misura una discussione sincera può avere luogo quando vede opporsi chi fa ricerca in modo precario a chi è titolare di una cattedra? Le relazioni di potere e le “situazioni” non spariscono. Recentemente abbiamo visto dei colleghi titolari di una cattedra parecchio conosciuti in ambito mediatico trattare con molta leggerezza – per non dire disprezzo – una giovane ricercatrice. È obbligatorio ammettere qui che, perché un dibattito scientifico possa aver luogo sulla rete, coloro che lo animano devono provvedere a rispettarne i codici.
L’esposizione di una discussione scientifica – il fatto che abbia luogo in pubblico coinvolgendo molte persone – crea altri problemi. Significa che le proposte universitarie potrebbero doversi confrontare con un pubblico che ha un modo di ragionare anche molto diverso, il cui orizzonte di attesa non sempre prevede la paziente dimostrazione delle sfumature dei fatti, oppure con individui che non esitano a ricorrere alla violenza verbale o all’accusa lapidaria. La forza delle reazioni suscitate spinge alcuni/e colleghi/e a disattivare regolarmente o rendere privati i propri account per poter ritrovare un po’ di calma. Twitter è uno spazio in cui può crearsi una controversia scientifica che però spesso non rimane limitata all’ambito di origine. Al contrario, ad esempio, sono invece le classiche conversazioni scientifiche in cui, pur non potendo parlare di spazi safe, si prevedono modalità di attacco meno aggressive. Si può anche notare che altri strumenti utilizzati normalmente, come le mailing list, pur potendo risultare altrettanto deleteri in quanto specificatamente accademici, non sono oggetto dello stesso tipo di critica.

Conclusione: per una discussione lucida e distesa a proposito dei social network

Questo post non vuole presentare una versione ingenua o incantata di Twitter. Siamo entrambi su Internet da abbastanza tempo da aver assistito a innumerevoli episodi di molestia o violenza. Le testimonianze indicavano anche i rischi e i limiti del dibattito scientifico su Twitter e siamo coscienti che ci sono molti/e colleghi/e che stanno cercando uno spazio di scambio online che possa essere pacifico. Pensiamo semplicemente che spazzare via in un colpo solo le possibilità offerte dalla rete o rifiutare di ammettere che dibattiti scientifici possano nascere al suo interno non sia il modo migliore per lavorare alla creazione di un contesto tranquillo. Al di là delle imprecazioni, se i ricercatori e le ricercatrici investono in questo strumento è perché risponde ad un bisogno. Volevamo provare a mostrare tutta la ricchezza che lo attraversa.
Infine, ci sembra che anche un altro elemento emerga con forza: Twitter è aperto, nel senso che le discussioni tra ricercatori e ricercatrici toccano un pubblico più ampio. Questa apertura rappresenta un vantaggio – far conoscere i nostri metodi e i nostri lavori – e un rischio – quello dell’aggressione proveniente da account che si preoccupano poco della discussione accademica. Questa duplice dimensione dobbiamo tenerla ben presente, dal momento che discutiamo, sulla scia della storia pubblica, della conversazione scientifica online.

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  1. Qualche esempio viene fornito in questo articolo di «Le Monde», che mostra anche l’ambivalenza di questo social network, URL:  < https://www.lemonde.fr/pixels/article/2019/03/06/twitter-un-outil-aussi-utile-qu-opprimant-pour-les-femmes_5432384_4408996.html > [consultato il 26 agosto 2023].
  2. DACOS, Marin, MOUNIER, Pierre, Les carnets de recherche en ligne, espace d’une conversation scientifique décentrée, in Lieux de savoir, t. 2, Gestes et supports du travail savant, Paris, Albin Michel, 2010.
  3. Per una definizione di Social Network fare riferimento a: BOYD, Danah M., ELLISON, Nicole B., «Social Network Sites: Definition, History, and Scholarship », in Journal of Computer-Mediated Communication, 13, 1/2007, pp. 210-230, URL: < https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/j.1083-6101.2007.00393.x > [consultato il 26 agosto 2023].
  4. BURGESS, Jean, BAYM, Nancy K., Twitter: A Biography, New York, New York University Press, 2020.
  5. Per alcuni esempi del peggior utilizzo di Twitter e delle modalità per rimediare fare riferimento a: BOULLIER, Dominique, Comment sortir de l’emprise des réseaux sociaux, Paris, Le Passeur, 2020.
  6. Fare riferimento anche a MEHLMAN PETRZELA, Natalia, Navigating Social Media as an Academic, in FLORE, Lori A., OLCOTT, Jocelyn (eds.), The academic’s handbook, Durham, Duke University Press, 2020.
  7. Traduzione in italiano: Intorno ad una macchinetta del caffè virtuale. Gli storici e le storiche su Twitter.
  8. Sugli archivi si può citare l’esempio di Véronique Beaulande e numerosi altri.
  9. In occasione del centenario della vittoria di Verdun, Emanuel Macron fu oggetto di diverse critiche per aver celebrato il maresciallo Philippe Pétain per le sue prodezze militari durante la Prima Guerra mondiale evitando però di sottolineare la svolta antisemita che prese quando si fece volto del collaborazionismo durante l’occupazione tedesca della Francia nel 1940.
  10. Già Nicolas Sarkozy, nel 2004 e nel 2007, aveva accusato la sociologia di cercare di scusare l’inescusabile nel tentativo di trovare una spiegazione ai problemi sociali, per lui inspiegabili, che stava affrontando durante il suo governo. Manuel Valls, all’epoca primo ministro, seguì le sue orme dopo gli attentati terroristici del novembre 2015, quando in un discorso in omaggio alle vittime del supermercato Hyper Cacher tenutosi il 9 gennaio 2016 dichiarò che “non ci può essere nessuna spiegazione valida. Perché spiegare è già voler scusare”. Criticando così di fatto il tentativo sociologico di comprendere o fatti sociali e le loro caratteristiche riducendolo ad una “cultura della scusa”.
  11. BEAUD, Stéphane, NOIRIEL, Gérard., Race et sciences sociales: Essai sur les usages publics d’une catégorie, Marseille, Agone, 2021.
  12. BEAUD, Stéphane, NOIRIEL, Gérard «Impasses des politiques identitaires», in Le monde diplomatique, 1/2021, URL: < https://www.monde-diplomatique.fr/62661 > [consultato il 26 agosto 2023].

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