L’atelier de l’historien-ne: post #49
Per la nuova rubrica L’atelier de l’historien-ne, questo mese proponiamo la traduzione del post «Pédagogie et formation en histoire à l’ère numérique, quelques réflexions #dhiha8», pubblicato sul blog Acquis de conscience, curato da Caroline Muller.
La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.
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di Caroline Muller
La settimana scorsa ho partecipato ad un laboratorio-conferenza tenuto all’Istituto storico tedesco da Frédéric Clavert, Mareike König e Franziska Heimburger. L’idea era riunire colleghi/e di paesi europei diversi per riflettere collettivamente su quale fosse la migliore modalità per istruire studenti e studentesse di storia nell’era digitale e immaginare il “percorso ideale” per metterli/e a proprio agio con le nuove difficoltà che chi lavora con la storia si trova a dover affrontare con l’avvento di questo nuovo contesto digitale. Il format proposto è stato molto piacevole: riscontri di esperienze tradizionali si sono alternati con laboratori a cui chiunque poteva assistere a seconda dei propri interessi. Io ho partecipato a quelli che riguardavano la gestione dei dati di ricerca e a un incontro sulle questioni pedagogiche, poi ho contribuito all’elaborazione del “percorso ideale” per chi sta studiando storia insieme a Stefania Scagliola. Le diverse riflessioni che presenterò qui sono tratte dai dibattiti svolti e dalla lettura di diversi contributi online pubblicati in occasione dell’evento.
Questioni pedagogiche: non importa il nome, se se ne conosce il senso
Numerosi interventi si sono domandati che posto potessero avere le “umanità digitali” nella formazione storica. Come Émilien Ruiz, anch’io sarei favorevole ad una formazione integrata “al digitale” per tutti quei corsi che gli studenti e le studentesse di storia sono tenuti a frequentare obbligatoriamente. Durante un corso triennale a Reims Champagne Ardenne tra il 2015 e il 2018 ho proposto uno schema che sintetizza gli elementi che mi sembra fondamentale che studenti e studentesse conoscano per comprendere l’ambiente a cui la pratica della ricerca storica si sta adattando.
Fonte: Gallica / Bibliothèque nationale de France.
Come si può notare, si rinvengono diversi livelli di analisi: la volontà di trasmettere elementi di cultura digitale generale (in giallo), un’introduzione alle problematiche legate all’informazione scientifica (non generalista) e infine le problematiche specificatamente disciplinari (in rosso). All’interno del corso ogni cosa era pensata per degli/delle storici/che, compreso la scelta degli step iniziali. Mi sono chiesta quali condizioni fossero necessarie perché chi studiava con me potesse comprendere ciò che volevo raccontare della ricerca storica, ed è la ragione per cui ho ritenuto fondamentale risalire ai livelli giallo e arancione. Non è una questione estetica: dal momento che non esiste un modulo di “cultura digitale generale” obbligatorio, ho valutato che non si potesse affrontare il tema dell’informazione scientifica senza spiegare, in modo semplice e per sommi capi, come funzionava il motore di ricerca da utilizzare. Suggerisco poi diversi esercizi da far fare agli studenti e alle studentesse durante il corso.
Per me, “integrazione con la formazione disciplinare” non significa “resa alla tecnicità” a favore di contenuti più facili da trasmettere come questioni legate alla storia pubblica, alla diffusione dei risultati di ricerche o al blogging. L’integrazione con la formazione disciplinare e l’insegnamento di strumenti specializzati richiedono sicuramente un grande investimento: porre le basi per comprendere che cosa sia una ricerca storica in epoca digitale esplorando le diverse possibilità (come la storicizzazione per algoritmo descritta da Pierre-Carl Langlais) senza tuttavia spingere immediatamente gli/le studenti/studentesse verso gli strumenti che ne permettono la realizzazione. A titolo esemplificativo, quest’anno ho lavorato partendo da un articolo di Ian Milligan che descriveva il modo in cui la digitalizzazione dei resoconti dei dibattiti parlamentari canadesi rendeva possibile analizzarli in termini diversi. Abbiamo riflettuto su queste nuove questioni, sull’apporto e sui limiti della metodologia, evitando però di passare immediatamente alla pratica e al foglio di testo. Perché? Perché uno strumento – in particolare se difficile da padroneggiare – non può essere utilizzato a meno che non se ne colga il senso. Al secondo e al terzo anno gli studenti e le studentesse scoprono i principi della ricerca storica; solo più tardi, durante il quarto/quinto anno, svilupperanno l’esigenza di saper utilizzare gli strumenti. Possiamo quindi immaginare di combinare una formazione digitale totalmente integrata con i corsi classici durante i tre anni di laurea, con le lezioni più specialistiche durante i corsi magistrali a seconda di cosa è necessario, legando gli strumenti proposti a ciò di cui effettivamente hanno bisogno nel corso delle loro ricerche (fogli di testo, cartografia…). Un progetto del genere, però, non può essere realizzato se non parlandone con il dipartimento di storia, magari in occasione degli incontri di riprogettazione dei modelli didattici, in modo da rendere il corso di studi coerente.
“Ne hanno parlato”? Parlare di formazione storica durante l’epoca digitale
Il fenomeno del “signore/signora digitale” esiste ancora: Émilien Ruiz a proposito è molto pessimista, ed è vero che ancora spesso si identificano una o due persone competenti “sul digitale” a cui affidare il corso – o si incaricano docenti precari/e o dottorandi/e. Ma il peso di questa realtà non deve cancellare i netti progressi che io stessa ho potuto constatare negli ultimi tre o quattro anni. Diversi “signore e signora digitale” sono stati identificati in persone che ricoprono incarichi di ruolo e, per quello che riguarda direttamente la mia esperienza, nessuno mi critica più perché “mi occupo di digitale”. Da qualche tempo la reazione principale è diventata “oh, mi piacerebbe che mi inviassi le tue lezioni!” – in altre parole, la battaglia per la legittimità sta per essere vinta, soprattutto grazie al fatto che il mestiere si sta digitalizzando e che chi si occupa di storia deve confrontarsi personalmente e quotidianamente con questioni che riguardano l’ambiente digitale.
Rimane il fatto che dei problemi di comunicazione persistono, Émilien ne parla nel suo blog [↩]. L’utilizzo della provocazione o dell’imperativo non mi sembra la strategia migliore per poter avviare una discussione tranquilla, parimenti, non penso sia utile squalificare la “politica dei piccoli passi” ed esigere che tutto cambi in un istante. Anche in questo caso mi sembra importante cominciare a dare un senso a ciò che proponiamo, prendendo anche in considerazione la reticenza, le domande e le obiezioni da parte di colleghi e colleghe: in un contesto in cui i carichi di lavoro non fanno che aumentare è comprensibile essere poco disponibili a rifondare le basi del proprio lavoro da cima a fondo. Perché integrare la questione digitale ai corsi metodologici disciplinari significherebbe anche questo: che ognuno/a ripensasse agli strumenti che impiega per poterne trasmettere le modalità di corretto utilizzo agli studenti/alle studentesse, che l’effetto “signor/signora digitale” sparisse, o si attenuasse. Ma questo fa paura e richiede tempo, e le risorse per lanciarsi e provare – assumendosi quindi dei rischi – cominciano ad essere disponibili solo adesso. A mio parere, per poter affrontare tutto ciò tranquillamente, bisogna innanzitutto disinnescare le discussioni che potrebbero nascere dalla provocazione o dall’obbligo, e concedere il beneficio del dubbio: chi è che non vede attorno a sé colleghi/e combattere per mantenere una formazione di qualità, spesso anche a costo di stress e sacrifici? Mi sembra essenziale dare un senso alle proposte piuttosto che criticare i nostri interlocutori e le nostre interlocutrici per ciò che non fanno.
Questioni pedagogiche: non importa il nome, se se ne conosce il senso
Queste diverse riflessioni mi portano a formulare differenti proposte. Innanzitutto, la conversazione potrebbe partire discutendo collettivamente delle idee emerse, ad esempio a riguardo della base comune proposta nel 2011 da Franziska Heimburger et Emilien Ruiz, dello schema che ho presentato io sopra o dal testo che abbiamo redatto insieme a Stefania Scagliola durante il laboratorio all’Istituto storico tedesco e che presto metteremo a disposizione del pubblico.
La base comune proposta da E. Ruiz e F. Heimburger.
Ragionare è sempre più facile se si parte da proposte concrete, leggibili e coerenti, perché ciò permette a ciascuno/a di legare lo scambio alla propria esperienza e alla propria pratica storica, riducendo così i pregiudizi che potrebbero essere legati alla “storia digitale” o all’“umanistica digitale”.
Un’altra soluzione consiste nel raggruppare e sottolineare lezioni ed esperienze, in modo da eradicare il sentimento di estraneità ed esteriorità che a volte si vive quando ci si confronta con il “digitale”: mostrare che non si tratta di smettere di occuparsi di storia, o di cambiare in blocco tutti i metodi di lavoro, ma di esplorare collettivamente le possibilità: come potrebbero essere, ad esempio, le fonti native digitali. In questo processo che punta a rendere più visibili le risorse, c’è ad esempio già EnumHist[↩], il sistema che nei prossimi tempi vorremmo riprendere: invito già chi potrebbe essere interessato/a a questi argomenti a farsi avanti. Mostrare le scalette dei corsi e dei programmi mi sembra il modo più immediato per ispirare chi ha buona volontà. Anche ripartire dalle competenze di ognuno/a: avviare un corso sulle fonti documentarie, non è né più né meno che riflettere sulla propria pratica, dietro le quinte, e tramandare ciò che si sa già fare.
- RUIZ, Emilien, #DHIHA8 Nous sommes à la croisée des chemins !, in Devenir historien-ne, URL: < https://devhist.hypotheses.org/3692 >.
Enseigner le numérique aux historien·ne·s , URL: < https://enumhist.hypotheses.org/ >.
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