ISSN: 2038-0925

L’atelier de l’historien-ne: post #51

Per la rubrica L’atelier de l’historien-ne, questo mese proponiamo la traduzione del post «Jouer le bandit ottoman en Turquie contemporaine: nationalisme et masculinité», pubblicato sul blog “Carnets de Terrain”, blog della rivista Terrain.

La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.

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Interpretare il bandito ottomano nella Turchia contemporanea: nazionalismo e mascolinità
24 giugno 2021

di Lydia Zeghmar

Serdar mi guarda dritta negli occhi. È ben piantato davanti a me, in linea con i suoi compari, altri due moschettieri turchi con stivali in pelle e la testa coronata di fiori. All’ombra dell’albero centenario che domina la piccola città di Tire, li ho trovati sia buffi che intriganti. Sapevo che i costumi folkloristici turchi erano ricchi ed esuberanti, ma non mi aspettavo questi pantaloni corti che lasciavano le gambe degli uomini scoperte e questa corona, fez, con ornamenti variopinti. La fantasia di questo equipaggiamento contrastava con gli attributi dei “moderni”, con il dress code urbano austero diffuso dalle élite kemaliste[] all’inizio del secolo scorso. I costumi rompevano anche con le norme di sobrietà sunnita che, dall’arrivo al potere degli islamisti nel 2002, hanno riconquistato anche le campagne di una regione conosciuta per essere la più liberale della Turchia. Cosa stavano facendo così conciati questi tre nativi dell’Egeo, forti ragazzi anatolici, che solo più tardi ho scoperto anche essere pieni di quello che comunemente viene chiamato “buon senso contadino”?

Mentre mi interrogavo sull’incongruità di questa tradizione locale, si mettevano in posa con orgoglio. Un canale televisivo aveva loro chiesto di improvvisare una zeybek, danza lenta e solenne tipica della regione. Il loro ballo era stranamente bello, ma erano soprattutto i costumi e i loro racconti sulle figure locali dei banditi-contadini che chiamavano zeybek – da cui l’omonima danza di cui sono così fieri – ad intrigarmi. Dal mio breve soggiorno nell’Egeo ho imparato che vi si commemorano sempre questi banditi di tarda età imperiale (XIX secolo) che si rifugiavano tra le montagne della regione per scappare alle autorità ottomane.

Il banditismo zeybek è attestato nell’ovest dell’Anatolia almeno dal XVIII secolo, ma prende piede soprattutto nel secolo successivo e termina con l’avvento del controllo dello Stato-nazione. Le bande di zeybek erano costituite da poveri contadini datisi al brigantaggio, disertori che scappavano dalla coscrizione, soldati irregolari divenuti disoccupati di ritorno dalle campagne militari, schiavi liberati o in fuga, privati di ogni legame sociale. Durante tutto il XIX secolo ottomano, caratterizzato da guerre continue, abusi di potere locali nei confronti della popolazione rurale, tensioni intercomunitarie e una difficile transizione verso l’economia capitalista, le ragioni per darsi al brigantaggio erano molte. Gli zeybek derubavano le famiglie ricche, locali e cristiane, per ridistribuire il bottino alla popolazione, da cui acquisirono la fama di essere “banditi sociali”. Studi storici recenti e fonti dell’epoca (testimonianze consolari e racconti di osservatori esteri), attestano tuttavia il ruolo delle bande di zeybek nelle violenze commesse contro le minoranze cristiane in Anatolia (massacri, espulsioni, saccheggi). Gli zeybek potevano costituire vere e proprie famiglie di banditi, come questa fotografia che immortala la banda di Danişmentli Ismaël Efe (1878-1946) (cf. Fig. 1) testimonia.

Fig. 1. Seduto al centro: Danişmentli İsmail Efe. Da sinistra e destra : Şeref Ali Efe (suo cognato); Konuklulu Şakir Efe (« kızan », compagno d’armi); Bayram Efe (suo nipote) Hüseyin Efe (suo fratello); Mehmet Efe (suo fratello maggiore).

Due anni più tardi, nel 2013, ho trovato i nostri tre in una curiosa produzione amatoriale di un cortometraggio (13mn) intitolato Tek dağın Iki Efesi e diffuso su Youtube. Vestiti come gli zeybek rispondono, con molta cura, ad altri attori autoctoni più giovani. La trama, basata sulla rivalità tra bande armate irregolari, rinvia al contesto del banditismo endemico che accompagna il declino dell’Impero ottomano al volgere del XIX secolo. Lo sceneggiatore, Hüseyin Sünbül, interpreta il ruolo principale, quello dello zeybek Yakup Efe; mentre Şahin Efe Yılmaz, il regista, si concede una veloce apparizione alla fine del film. Ho incontrato quest’ultimo nell’ambito di un monitoraggio etnografico degli eventi culturali organizzati da militanti nazionalisti. Indossa spesso un copricapo portato dai turchi dell’Asia centrale – il kalpak, diventato simbolo kemalista –, grandi cappotti dai colori scuri – secondo il codice di abbigliamento della destra ultranazionalista turca –, e appare regolarmente in scena nei film che diffonde sul suo canale Youtube, Efelik Ruhu Zeybek TV, che significa «Zeybek TV L’anima della Efelik». Efelik è un termine polisemico intraducibile: efe [pron. «efe»] designa oggi i capi dei gruppi dei banditi ed è un termine che nel mondo anatolico è utilizzato per onorare qualcuno. In turco, l’utilizzo del suffisso nominale -lik (o delle sue varianti lık, luk, lük) significa “che riguarda” o “che contiene [questo o quello]”. La parola efelik, quindi, rimanda a tutto ciò che riguarda l’Efe e, metaforicamente, al fatto di condurre o guidare un gruppo. Questa proposta culturale designa una forma d’istituzione locale del banditismo, contraddistinta dal un suo codice di comportamento e da riti specifici.

Fig. 2. « Vazife » [il dovere], schermata di una clip realizzata da Şahin Efe Yılmaz che appare vestito da zeybek.

Sul suo canale Şahin Efe diffonde essenzialmente interviste sulla storia degli zeybek e film patriottici (cf. Fig. 2) in cui indossa il costume tipico dei banditi e intima a chi guarda di ricordarsi dei “martiri” (şehit) della Guerra greco-turca (1919-1922) morti per salvare la nazione. Nel contesto attuale, la commemorazione degli efe è principalmente appannaggio della frangia nazionalista e laica della società. Questa è fortemente legata alla partecipazione di alcune bande di zeybek alla “guerra di Liberazione” che comincia con l’occupazione d’Izmir da parte dell’armata greca nel maggio 1919. La regione egea della Turchia è tra i territori più coinvolti dal conflitto che vede confrontarsi l’esercito greco e le truppe di Mustafa Kemal, la cui vittoria portò alla fondazione della Turchia moderna. Questa sequenza storica spiegherebbe la cultura nazionalista e il costante successo del partito kemalista all’interno della regione, così in contrasto con la tendenza elettorale del resto del paese.
Parallelamente all’interpretazione nazionalista della figura dell’efe esiste anche un immaginario pastorale che suggerisce la continuità degli illegalismi popolari. È espresso simbolicamente dall’ambientazione del film in uno spazio montano, il luogo dei partigiani, dei gruppi eterodossi e dei nomadi. L’efe dominava il territorio facendo leva sul favore della popolazione rurale (volenti o nolenti). Se esistono figure paragonabili al bandito d’onore in altre regioni dell’Anatolia, la sua persistenza nella tradizione orale e nel folklore del territorio egeo, si trova forse nel fatto che riesce ad incarnare sia lo spirito ribelle, clanico e la diffidenza verso l’autorità statale, che l’eroe morto per la patria, pur essendo questa all’epoca a uno stato ancora embrionale. Tra gli uomini attaccati al passato kemalista, questo modello assume un significato particolare. Tek dağın İki Efesi, combinando motivi nazionalisti (bandiera turca, costumi folkloristici, armi da fuoco) e regionalisti (lingua, danza zeybak, presenza pastorale), ne riflette bene la complessità semantica.
In ogni caso, lo spettatore neofita non capirà niente, vedrà solo uomini turchi che giocano con la pistola. I creatori del film ci fanno immergere senza preparazione in un mondo vernacolare abbastanza codificato tramite danze, costumi e storie di banditi che invita ad interrogarsi sui destinatari di questa autoproduzione. Infatti, uomini vistosamente armati si esprimono in turco con un forte accento provinciale, utilizzando formule idiomatiche (interiezioni, termini dialettali) da un luogo sconosciuto e da un’epoca imprecisata. I dialoghi ci permettono di comprendere gli elementi della trama – la morte di un capobanda, una rivalità – senza però fornirci una contestualizzazione più generale della scena. La sola indicazione di cui disponiamo, e di cui siamo ormai piuttosto esperti/e, è il singolare costume dei banditi zeybek. Qual è il significato di questa autoreferenzialità alquanto sconcertante?

Caratteristiche modali del bandito zeybek

È tra le montagne che dominano la valle del Piccolo Meandro (Küçük Menderes) che si sviluppa la prima scena del film. Si vede Yakup Efe avanzare al piccolo trotto impugnando fermamente la briglia del suo cavallo (cfr. Fig. 3). Prosegue il suo cammino nella luce bluastra dell’alba attraverso tortuosi sentieri fiancheggiati da ulivi. L’inquadratura, un po’ tremolante e la cui ripresa è stata realizzata dalla boscaglia dà l’impressione a chi guarda che l’eroe sia sorvegliato. Il personaggio sembra essere in pericolo, evidenziando così il suo coraggio e la sua determinazione. Il suo sguardo è fisso: va senza esitazione verso il suo destino.

Fig. 3. «Tek dağın iki Efesi » [Una montagna e i suoi due Efe]. Schermata della prima scena del film.

La solitudine dell’eroe sottolinea la sua irriducibilità: l’efe non è sottomesso a nessuna autorità superiore che non sia Dio. Lo Stato e la comunità non possono imporgliene e il suo forte individualismo si contrappone a comportamento dei suoi compagni d’armi zeybek che, sempre in gruppo, gli sono palesemente sottoposti. L’organizzazione gerarchica di questa compagine di uomini armati appare chiaramente nella sequenza successiva. L’efe giunge su di un pendio su cui l’aspettano cinque uomini vestiti da banditi. Alla sua vista si raddrizzano immediatamente e si posizionano a distanze uguali l’uno dall’altro. In silenzio, Yakup Efe li abbraccia vigorosamente uno alla volta. Alla fine di questo virile saluto, li invita solennemente a sedersi e questi eseguono distribuendosi a semicerchio sul terreno sassoso. Parlano. Mentre gli uomini raccontano dell’assassinio del loro capo e chiedono a Yakup Efe il suo sostegno per la loro impresa di riconquista delle “loro terre”, l’efe rimane impassibile, sottolineando il suo rango mantenendo una distanza fisica dai suoi compagni e parlando poco. Pensieroso, fa qualche passo girando la schiena agli uomini che si alzano contemporaneamente. Con il petto in fuori aspettano un suo segno. L’efe è considerato un visionario.
Nella scena successiva, momento sospeso in cui guarda l’orizzonte, l’efe ricorda il suo incontro con un vecchio pastore che era stato derubato da dei “banditi cattivi” (chiamati çalıkakıcı)[] . Uno dei suoi uomini aveva promesso allo sfortunato di inseguire gli “infami ladri” senza sosta fino ad ottenere vendetta. Questa scena interviene per consolidare l’antico legame tra contadini turkmeni e banditi zeybek ed romanticizza alcuni dei valori principi che si prestano volentieri alle società pastorali[]. Per citarne alcuni: l’onore (offeso, che deve trovare vendetta e riparazione); la fratellanza, l’esistenza di una forte gerarchia interna. Questa etica viene spesso menzionata nei discorsi degli uomini della regione che si interessano agli zeybek.
Il film prosegue rievocando lo scontro tra rivali nascosti nei boschi. La difficile leggibilità della scena in cui i combattimenti si susseguono in modo irregolare dà la sensazione di un approccio molto simile alla pratica dei bambini che giocano a “fare finta”, iniziazione alla vita di gruppo ma anche timore del “doppio” bandito. Il film sembra destinato agli attori stessi, come se traessero soddisfazione dal giocare ai banditi osservando i loro compari incarnare i banditi con soddisfazione. Il piacere di guardarsi mentre si è coinvolti crea una forma di emozione spersonalizzata che costituisce una delle definizioni di kitsch sentimentale: «Il Kitsch fa spuntare, una dietro l’altra, due lacrime di commozione. La prima lacrima dice: – Come sono belli i bambini che corrono sul prato! -. La seconda lacrima dice: – Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato!»[]. I costumi barocchi, «ingiunzione materializzata»[]a essere ciò che ci si sforza di rappresentare e la possibilità di sottrarsi all’ordine sociale offerta da questa esperienza artistica, amplificano il processo di identificazione con l’opera stessa. Il senso di clandestinità nel film stesso viene raddoppiato dalle molteplici indicazioni del segreto degli incontri. L’attività di questi uomini alla periferia della socialità ordinaria suggerisce la sopravvivenza dell’amicizia da confraternita, una tipologia di solidarietà maschile che segna fortemente il passaggio sociale e religioso della Turchia attuale, come dell’Impero ottomano caduto.

Un dialetto corporeo: gli «uomini che pesano»

In questo film, le scene in cui non succede niente sono lunghe come quelle che arricchiscono la trama, se non addirittura di più. Quello che colpisce più di ogni altra cosa è l’impegno che questi attori dilettanti mettono per incarnare i banditi con ogni movimento del corpo. Sembrerebbero volersi avvicinare all’hexis corporale dei banditi, a discapito dello scenario generale dell’azione. Le prime tre sequenze sono costruite attorno all’espressione dell’autorità dell’efe e della dignità dei banditi, ma questi attributi non vengono comunicati tanto con parole quanto attraverso la mediazione di un gioco semico[] che si organizza attorno agli atteggiamenti fisici. Davanti ai nostri occhi si compone un repertorio gestuale che esprime autorità o deferenza. Per rinforzare la dimensione stereotipata dei personaggi il regista gioca anche con la luminosità: vengono enfatizzati i loro costumi e le loro armi e quindi il loro status e il loro abbigliamento leggendario (cfr. Fig. 4).

Fig. 4. Tek dağın Iki Efesi [Una montagna e i suoi due Efe] Fotogramma della scena in cui si organizza il combattimento con la banda avversaria.

Si evidenzierà la loro singolare modalità di tenere le ginocchia in avanti per valorizzare gli stivali che coprono integralmente i polpacci e quella di sedersi a gambe incrociate, a volte con una gamba sollevata (cf. Fig. 5), in una posa che viene attribuita ai pastori nomadi turkmeni.

Fig. 5. Tek dağın Iki Efesi [Una montagna e i suoi due Efe] Fotogramma della scena con il contadino.

Realizzata in una sola giornata, la fiction di Şahin Efe ha necessitato di pochi investimenti finanziari e materiali. Durante il making-off[], il regista, con autoironia, insiste sulle rudimentali condizioni delle riprese: spostamenti in trattore e motorino, perdita e malfunzionamento del materiale, assenza del catering, ricorso ad attori dilettanti scelti nella sfera dei conoscenti. La visione del making-off lascia immaginare la fatica che ha potuto rappresentare dover imparare il copione: si vedono gli attori muoversi durante le riprese con il testo sottomano. L’eloquio innaturale di questi attori per un giorno conferma che l’apprendimento del testo e la sua recitazione sono complicati. Al contrario, la qualità della postura e dei loro movimenti sembra ottima. Durante le prove, che il regista confessa essere state rare, li si vede prendere in prestito gli atteggiamenti dei banditi senza che gli sia richiesto e con molta naturalezza. Şahin Efe conferma che questa parte del lavoro è stata facile. Mi riferì che bastava che si comportassero come «uomini che pesano» (ağır adamlar, litt. «uomini pesanti/lenti»), un modello indigeno che conoscono bene. È un’espressione che nel linguaggio di strada turco designa gli uomini dominanti che possiedono un repertorio di atteggiamenti controllati, che si potrebbero osservare da lontano, ad esempio da un tavolo all’altra in un ristorante. Come «l’uomo che pesa», l’efe parla poco, ma quando lo fa tutto il mondo tace. Tutto il suo corpo esprime fermezza: stabile (oturaklı), imperturbabile, si sposta lentamente, pesantemente e con sicurezza. È questo modello popolare e patriarcale di virile affermazione che gli attori hanno in mente, non un semplice soldato o il noioso burocrate kemalista, né l’uomo pio, incravattato e moderno della “Nuova Turchia” dell’AKP[].
L’intrigo conta poco perché l’accento è posto sul pathos: saluti lunghi e calorosi si presentano a più riprese, il modo studiato di sedersi di questi uomini che rende il senso di solidità, una moltitudine di primi piani sui volti dagli sguardi intensi creano tra i personaggi «una occhi negli occhi»]e ogni movimento degli attori trasuda solennità. La musica, gli scambi di sguardi e il silenzio determinano una temporalità prolungata che rinforza ciascuna di queste situazioni di espressività.

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L’etnografo può legittimamente interrogarsi sulla capacità di questi attori dilettanti di indossare spontaneamente la persona dell’efe. Le fonti a disposizione sono rare, perché in Turchia la mascolinità comincia ad essere studiata appena adesso. Il film, però, suggerisce bene il ruolo degli atteggiamenti fisici nella soggettivazione di un’idealizzazione maschile. Nella regione si impara a comportarsi da efe durante i corsi di danze popolari, perché il folklore è un’istituzione statale. Ma questo folklore repubblicano trasmette una corporalità trattenuta e militare, piuttosto lontana dalla codifica dialettale della gestualità del bandito nella tradizione contadina dello zeybek. Tuttavia, quest’ultima viene mantenuta e gli attori traggono ispirazione da questa risorsa locale, pur nutrendosi anche di altri modelli maschili più nebulosi. Questo dialetto corporeo ricorda l’esistenza di un testo nascosto, per riprendere l’espressione di James Scott[], persistenza di una memoria sociale contrapposta all’amnesia storica che è al centro del nazionalismo turco.
Se torniamo indietro nel tempo, un doppio modello di mascolinità alla turca fondato su una simile contrapposizione esisteva già nel periodo ottomano, in cui i corpi ribelli dei combattenti irregolari coesistevano con la disciplina e la rigidità di quello dei giannizzeri[]. Nella Turchia contemporanea diverse versioni di mascolinità moderna e politicizzata si distinguono per l’utilizzo di gridi di battaglia e specifici artefatti: copricapo, giacca e cravatta, tespih, gioielli, baffi stilizzati, ecc. L’aspetto occidentalizzato del burocrate è frutto di una “impresa civilizzatrice”; l’abbigliamento dei militanti AKP unisce questo desiderio di modernità con lo spirito di riconquista delle forze conservatrici islamiche, soffocate dalla doxa kemalista.
Ancora oggi, il modello del bandito d’onore ottomano efe rimanda a delle espressioni più diffuse della virilità e del dominio patriarcale, paragonabili a quelle dell’«uomo che pesa» e della sua versione criminale, il kabadayı, autorità di quartiere associata all’universo della delinquenza urbana immortalata in un omonimo film. Queste figure attraversano i tempi. Trascendono gli orientamenti ideologici ma corrispondono a forme esasperate di carisma personale e di fatto vengono regolarmente riportate, in modo positivo o negativo, sulla scena politica. Alcuni nazionalisti dell’Egeo dichiarano che Atatürk è “l’ultimo degli efe”; i detrattori di Erdogan gli rimproverano lo “stile criminale” (kabadayılık) e alcuni militanti del Partito d’Azione nazionalista (MHP) vedono in questi fuorilegge una durezza giustificata da circostanze sfortunate e dal perseguimento di una “giusta causa”.

Linea di separazione
  1. I Kemalisti sono i partigiani del kemalismo, l’ideologia di modernizzazione sviluppata da Mustafa Kemal, detto «Atatürk» («Padre dei Turchi»), considerato come il padre fondatore della Turchia moderna.
  2. Çalıkakıcı è un nome peggiorativo e idiomatico, sconosciuto nelle altre regioni della Turchia, che distingue moralmente tra banditi “buoni” e “cattivi”. Per quello che l’autrice sa, non esistono lavori scientifici che forniscano un approccio etimologico e contestualizzato di questo termine. Nella regione dell’Egeo, gli appassionati di zeybek si attengono sempre a definizioni molto vaghe e sostengono che le autorità ottomane si riferivano senza distinzione a semplici banditi (eşkiyah), mentre la popolazione rurale della provincia distingueva i banditi «senza fede né legge» che attaccava in particolare la popolazione turca autoctona, dagli zeybek che, a loro avviso, rispondevano ad un codice d’onore (rifiutavano gli stupri, i saccheggi dei villaggi turchi, ecc…) e se la prendevano principalmente con i ricchi.
    Si può tuttavia supporre che gli abitanti dei villaggi turchi distinguessero i “banditi-contadini” autoctoni, legati a loro da vincoli di solidarietà etniche e familiari (la cui azione è “contenuta” da questa filiazione), dalle altre bande criminali che imperversano nella regione.
  3. DAMIANAKOS, Stathis, «Banditisme social et imaginaire pastoral en Grèce (XIXe — début XXe siècle)», in Études rurales, 97-98, 1985, pp. 219-240.
  4. KUNDERA, Milan, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano Adelphi, 1985, pp. 256-257.
  5. HOUSEMAN, Michael, «Comment comprendre l’esthétique affectée des cérémonies New Age et néopaïennes?», in Archives de sciences sociales des religions, 174, 2016, pp. 213-237.
  6. FLICHE, Benoît, «Quand cela tient à un cheveu», in Terrain, 35, 2000, pp. 155-165.
  7. URL: < https://www.youtube.com/watch?v=oSF7SsZuqvY&feature=youtu.be > [consultato il 16 marzo 2024].
  8. Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP), in italiano «Partito della Giustizia e dello Sviluppo» è la formazione politica islamo-conservatrice che governa la Turchia dal 2002, da cui proviene l’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan.
  9. CLAUDEL, Paul, L’œil écoute, Paris, Gallimard, 1999 [1946], p. 49.
  10. SCOTT, James C., Domination and the Arts of Resistance. Hidden Transcripts, New Haven – London, Yale University Press, 2009.
  11. BOZARSLAN, Hamit, « Corps », in GEORGEON, François, VATIN, Nicolas, VEINSTEIN, Gilles (dir.), Dictionnaire de l’empire Ottoman, Paris, Fayard, 2016, pp. 300-306.

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