Prefazione
a cura di Giuseppe Carlo Marino
Diacronie. Studi di Storia Contemporanea. DOSSIER : Luoghi e non luoghi della Sicilia contemporanea: istituzioni, culture politiche e potere mafioso, N. 3, 2|2010
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Quando, nell’autunno di una lunga stagione di ricerca e di lavoro scientifico, viene il momento dell’onore, c’è soltanto da prenderne atto con gratitudine, vincendo (se per naturale grazia la si avverte) la ritrosia della modestia. Qui, adesso, l’onore tributatomi da Diacronie consiste nell’invito a scrivere la prefazione (se si vuole una specie di editoriale) per un suo importante dossier. Un compito, il mio, da assolvere in breve spazio com’è da farsi per lasciare parlare senza predeterminazioni interpretative, e volutamente senza un qualsiasi “padrinato”, i saggi qui di seguito pubblicati che sono tutti, ognuno per suo conto, degli scritti di accurata fattura scientifica e di acuto concetto.
Vorrei subito evidenziare almeno due dei fattori che rendono oggettivo il mio privilegio. Il primo, che è di una qualità da indicarsi come preminentemente personale: l’essere stato invitato, da anziano scrittore di cose storiche, e con eventuali proiezioni di collaborazione nel futuro della rivista, da una redazione di giovani studiosi, addirittura giovanissimi, che riesce a mettere in luce una fertile continuità del lavoro storiografico dal XX al XXI secolo.
Il secondo, che ha a che fare con il peculiare carattere monografico di un numero della rivista integralmente dedicato ad eventi storici focalizzati sulla Sicilia: il trovarmi ad essere investito, direi oggettivamente in quanto e perché prefatore siciliano, di una sorta di rappresentanza informale, almeno di una rappresentanza testimoniale, dei numerosi colleghi storici siciliani della mia generazione che hanno già consegnato al Novecento la loro intera esperienza civile e la gran parte della loro produzione: una rappresentanza, questa, rimarcata sia dal ruolo-pilota che mi sembra assumere nel dossier la registrazione di un mio denso colloquio con Deborah Paci e Fausto Pietrancosta ; sia dagli stessi saggi pubblicati che (quasi coniugando l’autonomia di giudizio di ciascuno degli autori con le esigenze di un ordinato dibattito del collettivo redazionale) conducono a compiuti risultati storiografici alcuni argomenti e temi di ricerca ai quali, da intervistato, ero riuscito appena ad accennare. Sono argomenti e temi di ricerca cruciali in primo luogo per l’analisi storica e non secondari per gli interessi culturali attivati dall’attualità politica. Riguardano prevalentemente la morfologia del potere e della cultura politica dei ceti dirigenti siciliani sulla lunga linea diacronica del sicilianismo svoltasi fino all’avventura del separatismo (qui accuratamente rivisitato con l’ausilio di nuove fonti da Paci e Pietrancosta) e poi riemersa ancora nel fenomeno del “milazzismo” (arduo oggetto di studio di Pierluigi Basile); e raccolgono istanze critiche relative ad eventi finora poco studiati nelle loro specificità locali o meritevoli di più accurato approfondimento, incontrando inevitabilmente, nel complessivo orizzonte della ricerca, la grande questione della mafia e dei suoi intrecci con il fascismo e con il postfascismo, nonché la fertile esperienza storica dei movimenti popolari e dell’antimafia. Questo lavoro di analisi-verifica-integrazione, nel laboratorio operoso di una ricostruzione storica largamente alimentata da fonti documentarie, è realizzato dai vari saggi (firmati, nell’ordine del dossier, da Fausto Pietrancosta, Deborah Paci, Giacomo Parrinello, Pierluigi Basile, Giorgio Caccamo e ancora, infine, da Pierluigi Basile) anche in rapporto alle acquisizioni conoscitive attinte da un’eccezionale intervista rilasciata alla redazione da una personalità quasi mitica della storia politica siciliana: il senatore Giuseppe Alessi, antico fondatore della Dc nei primissimi del secondo dopoguerra ed autorevole protagonista dell’Autonomia regionale e poi del parlamento nazionale; una testimonianza assai ricca e densa la sua, un revival di memoria personale che si impone essa stessa come memoria collettiva della parte migliore del ceto politico siciliano, resa qualche tempo prima della morte (2009) con la sorprendente lucidità di una “giovinezza” di memoria e di acume intellettuale, preservatasi, quasi per miracolo della natura, a dispetto di una vita ultracentenaria.
Ci sono, pertanto, già dei motivi generali ben più che sufficienti perché un anziano studioso siciliano che ha dedicato una parte piuttosto nota della sua produzione alla storia del potere e delle generazioni politiche e culturali in Italia, possa adesso prendere atto con grande soddisfazione (e non soltanto per merito del suo allievo Pierluigi Basile) di una felice trasmissione generazionale del lavoro suo e dei suoi più meritevoli compagni di viaggio negli studi ─ compagni, e qualche volta maestri, ancora in vita o da tempo scomparsi, assai diversi tra loro per metodi e formazione intellettuale e civile (dal sempre illuminante Giarrizzo e dagli indimenticabili Alatri, Peri, Romeo e Titone, via di seguito sui percorsi disuguali dei vari Brancato, Falzone, Ganci, Giuffrida, S.F.Romano, Renda e Trasselli, fino ai Barone, Cancila, Fedele, Mangiameli, Lupo) ─ in un dialettico superamento-inveramento reso evidente dalle pagine di questo dossier.
Ma c’è di più. C’è la particolare sagacia della strategia storiografica adottata dalla pattuglia giovanissima di Diacronie da mettere bene in risalto. Un numero monografico o, se si preferisce, paradigmatico, dedicato alla Sicilia da studiosi che vivono, studiano e ricercano a Bologna potrebbe indurre ad immaginare il proposito di una lettura territorializzante, per capitoli regionali separati, o almeno per ambiti regionali circoscrivibili e circoscritti, della storia italiana, quasi una più o meno consapevole concessione alle mode regionalistiche e all’enfasi posta, dalla confusa stagione politica che stiamo vivendo, sulle diversità originarie e irrecuperabili delle molte Italie della penisola, sulle strutturali “disunità” di una dubbia e malferma esperienza nazionale. E far presumere l’intento di assumere e di rivisitare il dramma della frammentazione partendo dalla più lontana periferia dello Stato unitario, addirittura segnata dalla geografia in termini di insularità.
Ma non è proprio così per i sagaci redattori di Diacronie. Il loro intento, ritengo di poterlo dire con certezza, non è il segnare e consolidare distanze, l’accertare disunità, bensì quello di analizzare i processi organici della dialettica, e pertanto della permanente commistione-ibridazione, delle cosiddette “storie locali o regionali” ─ pur con tutte le specificità dei loro ritmi di svolgimento storico, delle loro peculiari dinamiche, dei loro ceti popolari e dei loro ceti dirigenti ─ con la grande, indivisibile storia nazionale.
Una siffatta commistione-ibridazione attiene a tutte le regioni italiane, con un’evidenza certamente crescente, in età contemporanea, dopo la formazione dello Stato unitario. Ma ancor più, si può ben dire, riguarda la Sicilia.
Poche regioni hanno svolto come la Sicilia, in paradossale contrasto con la geografia, un ruolo nazionale davvero “centrale” e in parecchi casi determinante. Lo fu, un siffatto ruolo, davvero decisivo ai tempi del Risorgimento. assicurando alla spedizione garibaldina quel successo senza del quale non sarebbe mai nata l’Italia che conosciamo. Lo sarebbe stato con ricorrente efficacia (nel bene e nel male, a prescindere da esiti politici spesso assai controversi e controvertibili nel giudizio storico) nei decenni successivi: nel 1874, con le elezioni politiche che crearono le condizioni necessarie e sufficienti per la svolta del 1876 dai governi della Destra storica a quelli della Sinistra parlamentare; negli anni 1890-94 , mentre era in corso il dramma della crisi del Regno, con l’imponente fenomeno dei Fasci dei lavoratori la cui fine infelice sotto il rullo compressore della repressione crispina sancì e stabilizzò, proprio per effetto della tragica sconfitta del movimento popolare che bloccò la fuoruscita dell’isola e del Sud dalla “questione meridionale”, la fisionomia dualistica dell’intero sistema italiano; con le oscure ed oscurate alleanze tra il “baronaggio mafioso” e il fascismo dopo la grande guerra che assicurarono, a scapito di un insorgente movimento contadino, stabilità ai poteri della dittatura nel Mezzogiorno, eludendo gli effetti della spettacolare operazione del prefetto Mori; nel secondo dopoguerra, con l’irruenza del movimento separatista di cui non è occultabile, nonostante tutto, la rilevanza di fattore dialettico per la formazione di una nuova Italia a fisionomia autonomistica (lo Statuto siciliano fu varato frettolosamente nel 1946, con decreto reale di Umberto II, prima della nascita della repubblica); poi, con la portata determinante, per gli equilibri politici nazionali, del tenacissimo voto conservatore espresso dalla sua società nel corso delle elezioni politiche, una garanzia di tenuta, nell’Italia atlantista della guerra fredda, offertasi al sistema di potere democristiano, per quanto costantemente all’ombra di un’oscura e infame alleanza di potere tra la politica e un permeante ceto mafioso (il caso Andreotti ne costituisce la plateale verifica). Si potrebbe continuare con esempi del genere, sempre, lo si è detto, sia nel bene che nel male.
Ed oggi? Oggi, dovremmo cominciare ad impegnarci, da studiosi e storici della contemporaneità, certamente con ogni prudente distanza critica da quanto narrano certi “pentiti” di mafia, in una ricerca per far luce sui motivi profondi (l’acquisizione delle risorse di un “servizio politico”…molto, molto speciale, per la conquista di consenso e poi di egemonia in Italia?) che hanno indotto fin dai suoi esordi un partito come Forza Italia, guidato dal milanesissimo Berlusconi, a dotarsi di un establishment in gran parte costituito da faccendieri e politicanti siciliani. Comunque, è certo che tutti i maggiori misteri della storia italiana in età repubblicana, dalla strage di Portella della Ginestra (1 maggio 1947) in poi, sono passati per la Sicilia.
Anche per l’età contemporanea non è sorprendente quanto aveva già rilevato Goethe circa l’impossibilità di capire l’Italia se si prescinde dalla Sicilia, la “chiave di tutto”. A sua volta, il mio venerato amico Leonardo Sciascia dichiarò di pensare e di scrivere della Sicilia come di una “metafora dell’Italia”.
E’ da presumere che analoghe intuizioni abbiano indotto i brillanti giovani di Diacronie a far partire dalla Sicilia il percorso di attuazione del loro progetto di ritrovare, rileggendola criticamente negli sviluppi in progress del lavoro storiografico, l’indivisibile dialettica nazionale-regionale (ed anche, viceversa, regionale-nazionale) della storia italiana.
Ecco, quindi, che nell’orizzonte di analisi prescelto, questo dossier paradigmatico, pur con le sue disomogeneità e i suoi inevitabili limiti di ricostruzione storica (ai quali si sopperisce comunque con accurati rinvii all’abbondante bibliografia disponibile e alle fonti documentarie), è un contributo importante, vorrei dire un contributo tanto criticamente avvertito quanto dotato di freschezza e originalità interpretative, a una lettura storica non proprio della Sicilia, ma dell’Italia attraverso la Sicilia.
Giuseppe Carlo Marino
P.S. Ringrazio Jacopo Bassi che ha ottimamente lavorato sul testo della mia intervista, dotandolo di un accurato, e molto utile, apparato scientifico..
MARINO, Giuseppe Carlo, «Prefazione», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea. Dossier : Luoghi e non luoghi della Sicilia contemporanea: istituzioni, culture politiche e potere mafioso, N. 3, 2|2010,
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