00/ Introduzione. Popular music e storia: media consumi e politica dagli anni Cinquanta agli anni Novanta
by Alessia MASINI,
Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, N. 53, 1|2023
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Introduzione
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Popular music e storia: media consumi e politica dagli anni Cinquanta agli anni Novanta
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La musica è parte integrante dell’attività dagli esseri umani, è un’innata «esigenza culturale»[1] ed è un’alleata della nostra capacità di astrazione e di percepire il mondo. È stata addirittura essenziale per l’evoluzione della specie perché si trova alla radice della natura del nostro linguaggio, del nostro scopo antropologico e della formazione delle società. Ha scritto il medico e autore Oliver Sacks:
è proprio strano vedere un’intera specie – miliardi di persone – ascoltare combinazioni di note prive di significato e giocare con esse: miliardi di persone che dedicano buona parte del loro tempo a quella che chiamano «musica», lasciando che essa occupi completamente i loro pensieri. […] sulla quasi totalità di noi, la musica esercita un enorme potere, indipendentemente dal fatto che la cerchiamo o meno, o che riteniamo di essere particolarmente «musicali»[2]
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In epoca moderna e contemporanea la musica ha conquistato un ruolo da protagonista nella sfera pubblica, popolando il paesaggio urbano e non urbano e veicolando il consumo, i simboli e i rituali laici. Potremmo scrivere, e riscrivere, la nostra storia a partire dalle fonti musicali e sentire così i “rumori di fondo” dei gradi eventi, conoscere da altri punti di vista come cambia il senso delle cose nella Storia: potremmo discernere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, quello che è politicamente corretto da quello che è, invece, scorretto, scoprire di cosa si nutrono i sogni e le aspirazioni, le utopie e le rivoluzioni, indagare l’idea di modernità, vedere sotto nuova luce le sfaccettature dell’idea di amore e di famiglia, le variegate traiettorie dell’identità, della percezione del corpo e del colore della pelle.
Nel dopoguerra la “musica colta” era al centro prevalentemente di studi storico-artistici e musicologici e le musiche di tradizione orale e contadina degli studi demologici ed etnomusicologici. Per molto tempo, al contrario di altri paesi europei, la storiografia italiana ha diffidato della fonte musicale perché non la considerava solida tanto quanto le fonti “tradizionali”, mentre solo a partire dagli anni Sessanta la musica, soprattutto il repertorio europeo colto dell’Ottocento, è entrata lentamente nel dibattito. Gli studi storici sul canto sociale e contadino, sul folklore e sul cantautorato di questi stessi anni rappresentano casi particolari perché coltivati, in un’epoca di alta conflittualità giovanile e operaia, come «oggetto di culto per una storiografia militante e anti-accademica, muovendosi tra memorialistica e giornalismo»[3]. Nel folklore si esprimeva, secondo l’eredità del pensiero di Gramsci, la cultura e il linguaggio delle classi popolari, operaie e contadine, cioè dei soggetti della rivoluzione contro il capitale e l’egemonia della cultura borghese. Parallelamente, da parte di una critica musicale emergente e di chi in prima persona faceva musica, prendeva però forma un’inedita attenzione verso la musica di massa – e in particolare verso la differenza tra una popular music con una maggiore legittimazione artistica e una invece di scarsa qualità –, poi verso i canoni di nuove tradizioni melodiche (quella di Sanremo, ad esempio, contrapposta alla canzone napoletana) e verso i codici della “canzone italiana” moderna: anche attraverso la musica si stavano perciò concretizzando forme di distinzione, lungo traiettorie culturali e sociali eterogenee e prima sconosciute, all’interno di una cultura nazionale sempre più omogenea[4]. La popular music di matrice angloamericana allora compariva come novità assoluta e si imponeva sulle tradizioni, anche in Italia, come modello razionale, occidentale e universale, a suo modo ideologico nella modalità in cui iniziava a controllare l’ordinario e lo straordinario attraverso un ampio sistema di orientamento, cioè attraverso i “generi” musicali. La cultura e musica popular nordamericana erano decisamente più “giovani” rispetto ai modelli culturali e musicali in Italia e – attingendo dalle osservazioni sul folklore di Gramsci – erano radicalmente altre rispetto alle culture delle diverse «stratificazioni» e delle «collettività popolari storiche», al loro «modo di concepire la vita e il mondo, in contrasto colla società ufficiale»[5]. Questa nuova presenza generava «magnetismi», volontari e involontari, tra diversi mondi sonori e tradizioni musicali, artistiche e politiche[6]. Alessandro Portelli sostiene che il rapporto stretto tra la cultura di massa nell’Italia del secondo dopoguerra e il modello culturale e di sviluppo nordamericano abbia messo in campo, tra le altre cose, una complicazione semantica tra cultura popolare e popular culture e, potremmo aggiungere, tra musica popolare e popular music[7]. Tra popular e popolare c’è relazione ma non sono termini intercambiabili: sostiene ancora Portelli che in inglese popular/people è plurale, onnicomprensivo e maggioritario, può essere tradotto come “popolo” ma nel senso di “insieme di persone”; in italiano, invece, “popolo” è singolare ma ambivalente, può voler dire “popolo” come intero “popolo italiano” o popolo inteso come “il complesso delle classi basse”. Poi nella vivacità degli anni Settanta e Ottanta, con l’avvio di una nuova relazione tra politica e consumo, tra politica e comunicazione e con la nascita di alcune nuove significative controculture, culture giovanili e musicali (punk e new wave in primis, poi metallari, rockabilly, mods, skinhead, paninari, ecc.), emergevano nuovi modi di appropriazione e di distinzione da parte degli individui su base culturale e musicale. In questa fase storica, anche i grandi partiti della Prima Repubblica rivedevano il loro rapporto con la cultura di massa, con la musica e con il divertimento[8]. Si trattava di un cambio di passo, in particolare da parte del PCI e del PSI, e di una vera e propria «sterzata di ordine culturale»[9] che avrebbe avuto un grande impatto sulla vita del paese e sulle forme di partecipazione politica. In questo macro-contesto, l’Associazione Internazionale per lo studio della popular music (IASPM) si costituiva nel 1981 in Gran Bretagna e la seconda conferenza internazionale di questo nuovo progetto di ricerca si teneva a Reggio Emilia nel 1983. Il momento e il luogo che avrebbero ospitato il primo incontro sul territorio italiano della IASPM non erano casuali: l’Emilia Romagna all’epoca era un centro nevralgico di una innovazione popular, musicale e culturale, che rimescolava alto e basso.
Proprio dal principio degli anni Ottanta la popular music ha iniziato a introdursi nel dibattito musicologico e via via anche storico in Italia; veniva inizialmente italianizzata in modo spesso disinvolto e solo recentemente ha conquistato una dimensione concettuale propria, mantenendo il termine inglese. Nonostante non sia una scelta sempre condivisa tra gli studiosi e le studiose, è ormai assodato che popular music non si possa semplicemente tradurre in italiano con «musica popolare» né con «musica leggera»: ognuno di questi termini porta infatti con sé significati e categorie storicamente determinate[10], mentre la popular music è distante dalle logiche e dalla fruizione della musica classica o colta così come del jazz, non si associa in modo intrinseco a differenziali di classe (basate su potere, egemonia, subalternità) o a soggetti che siano portatori di differenza e conflitto, come nel caso del canto sociale operaio e contadino, né si lega ai caratteri della musica istituzionalizzata dal regime fascista negli anni Trenta. Pertanto si tratterebbe solo di intrattenimento, non meritevole di interesse storico? Una risposta affermativa porterebbe con sé la riproduzione di determinismi e astrazioni: come quelle che vedono nel soggetto che consuma un’incapacità di azione, nel consumo un’attività passiva, nel mercato un dato[11]. Queste interpretazioni datate sono già state ampiamente criticate dalla ricerca storica sui consumi, con cui l’approccio storico alla popular music in epoca contemporanea dialoga inevitabilmente. Pochi minuti di una canzone infatti contengono uno «spessore di memoria culturale» tutt’altro che effimero[12], un brano viene costantemente rielaborato dai soggetti che ascoltano in base alla classe di appartenenza, all’«età, sesso, collocazione politica, religiosa e produttiva, uso del tempo libero, rapporto coi mass media»[13]. Attorno alla popular music poi si agglutina una cultura musicale (fatta di moda, discorsi e grafica) che seduce, evoca il passato o mondi sconosciuti, li reinterpreta e li rende desiderabili[14]. E la storia ci insegna quanto sia potente il desiderio. La musica e la canzone sono atti di comunicazione[15]: ricezione e produzione di popular music hanno un ruolo nella costruzione della realtà sociale, come agenti costitutivi «della consapevolezza umana e della produzione sociale di significato»[16].
Quindi, l’utilizzo del termine popular music non è solo una consuetudine o un trapianto da un campo di studi interdisciplinare e internazionale consolidato[17], ma è un’opportunità che ci permette di evocare immediatamente la specificità di esperienze musicali proprie dell’età contemporanea, di confrontarci con «un fenomeno mutevole all’interno dell’intero campo musicale» e «sempre in movimento» su traiettorie culturali transnazionali e nella complessità della dimensione del consumo[18]. Ci può rivelare nuovi attori e attrici non predeterminati, in altro modo trasgressivi, conflittuali e protagonisti di piccoli e grandi processi della storia.
Dopo le fasi fondative degli studi sulla popular music, con figure di riferimento come Franco Fabbri e le prime interazioni con la storia, negli ultimi venti anni l’estraneità della musica alle piccole e grandi trasformazioni è stata smentita e si può riconoscere ormai un «filone storiografico» e interdisciplinare[19]. L’incontro tra la fonte musicale e la ricerca storica e storiografica ha arricchito prevalentemente l’esplorazione della storia culturale del politico in epoca moderna e contemporanea: la musica è stata sia riconosciuta come elemento costitutivo del linguaggio politico, sia come parte della costruzione e del reframing di identità, del profilo di gruppi nazionali, delle comunità, delle classi, dei movimenti e delle generazioni[20]. Lo studio del messaggio testuale e dei contenuti domina l’approccio storico alla musica e questo rappresenta ancora un’ampia zona di comfort; raramente infatti abbiamo approfondito il valore del suono come fonte, il mutamento delle tecnologie di riproduzione e l’impatto di queste sulla performance e sull’ascolto. Soprattutto, ancora non è avvenuto un concreto superamento di quella visione prudente in cui la musica è vista come riflesso, come proiezione di qualcos’altro, un’estensione “passiva” che mostra e rivela ma non agisce[21], con il risultato, spesso, di trovare nelle canzoni la conferma di interpretazioni maturate altrove. Quando Marco Peroni tempo fa ha riflettuto sui nuovi strumenti e concetti per lo studio della musica da un punto di vista storico, ci ha suggerito di riscoprire il suo «ruolo decisivo all’interno di ampi processi culturali»[22], equivalente ad altri fattori intellettuali e razionali, ossia di vederla come «agente di storia» e non solo come riflesso o effetto della storia. Questo dovrebbe essere l’orizzonte.
Se i rapporti tra musica e storia in Italia sono via via migliorati favorendo alcuni approcci di ricerca, alcuni generi (classica, opera, folk, cantautorato) e alcuni momenti storici (come il Risorgimento e il “lungo ’68”), quelli tra popular music e storia contemporanea sono ancora largamente inesplorati. Ancora oggi appelli alla necessità di consolidare e innovare orizzonti e metodi in questo ambito di studi in Italia e sulla popular music italiana ricorrono in ogni nuova ricerca pubblicata, in ogni seminario, in ogni convegno sul tema e anche in questa sede. Ha scritto Jacopo Tomatis: «Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei non è necessariamente più interessante di Marina di Rocco Granata (entrambe del 1960) solo perché la prima ci ricorda la potenza epico-lirica di vergognose vicende del governo Tambroni, e la seconda che Marina “è una ragazza mora ma carina”»[23]. Inoltre non abbiamo ancora preso sul serio, per lo meno qui in Italia, lo studio della popular music in prospettiva storica come prisma per indagare across the lines gli assi culturali basati su genere, razza e classe. Ma i tempi sono maturi per misurarsi con la fonte musicale in una prospettiva finalmente libera dal bisogno di cercare e ritrovare i rassicuranti linguaggi e le simbologie delle culture politiche tradizionali, all’interno di una cornice nazionale ed europea e, al massimo della “trasgressione”, della performance folk e rock maschile, bianca e occidentale. Se ci sembra più accettabile utilizzare come fonte, per rimanere nell’ambito delle canzoni italiane, Per i morti di Reggio Emilia, Stalingrado o L’Avvelenata, invece di Marina, Non sono una signora, Sei un mito e Papa nero (solo per citare alcuni brani che appartengono a tante storie individuali, collettive e generazionali)[24], forse la ragione principale si trova a monte nella persistenza di un pregiudizio, anche inconsapevole, verso un prodotto culturale di massa concepito per l’intrattenimento e per essere venduto e riprodotto su diversi supporti[25], qual è sostanzialmente la popular music. O forse la ragione può trovarsi nel modo in cui, venuti meno “i canti del popolo e per il popolo”, la storiografia continua a leggere il fatto musicale, cioè attraverso la consuetudine della distanza tra “cultura alta” e “cultura bassa”, tra cultura borghese-occidentale e quella del “terzo mondo”. Il nodo critico si trova certamente nella lontananza dei saperi accademici dai linguaggi e dai codici della popular music e della musica, ma la difficoltà del rapporto tra il linguaggio dello storico e quello degli attori e attrici della storia è proprio la sfida del mestiere[26]. Carlotta Sorba alcuni anni fa ha sollevato un tema, riconoscendo che per lungo tempo la musica come oggetto di ricerca sia stata «non più di un hobby inconfessato per gli storici»[27]. Il caso di Eric Hobsbawm è ormai lontano ma ancora significativo: pubblicò la sua indagine sul jazz, Storia sociale del jazz (1959), con lo pseudonimo Francis Newton; il suo interesse scientifico per un oggetto che pareva non averne il valore avrebbe forse messo in ombra il resto del suo lavoro e il suo profilo di storico. La soggettività di chi fa ricerca non è elemento secondario, è un dato ormai riconosciuto, e nel contesto italiano in tante biografie di studiosi l’approfondimento della musica popular come oggetto e fonte di ricerca sembra quasi un approdo, come fosse espressione di una libertà di studio ormai raggiunta e successiva a un riconoscimento acquisito all’interno dell’accademia e consolidato su altri oggetti di ricerca. E quanto appena scritto porta inevitabilmente a sottolineare il numero esiguo di storiche in Italia che si confrontano con il fatto musicale e lo scarso investimento su ricerche di giovani storici e storiche oltre le tesi di laurea e di dottorato.
In conclusione, questo numero 53 di Diacronie nasce dal desiderio di consolidare e innovare. I dodici saggi qui contenuti sono suddivisi in sei sezioni, per vicinanza tematica, e in successione cronologica. Sono frutto del lavoro di studiosi e studiose con formazione diversa e che si trovano in momenti della propria carriera e contesti accademici differenti. In ogni caso, tutti gli articoli sono indicatori di dinamicità e della volontà di partecipare a un progetto comune per contribuire alla riflessione storiografica sulla popular music con nuove idee, oggetti di ricerca e prospettive di indagine maturate all’interno dell’ampio perimetro della storia dei consumi e dei media, dall’interazione con la storia delle culture politiche, con la sociologia e con i cultural studies e che si muovono tra una prospettiva nazionale e transnazionale. Tutti rispondono alla semplice domanda: in che modo la popular music, nel corso della seconda metà del Novecento, ha preso parte ai processi storici, alle dinamiche di esclusione e di inclusione, ai conflitti, alla trasformazione delle rappresentazioni, dei linguaggi e delle identità, all’ampliamento o restringimento degli spazi di democrazia e di liberazione?
Nella sezione “Ascolti”, che apre il numero, Paolo Prato propone uno studio originale e ricco di materiali di un fenomeno tutto italiano come la “canzone balneare”, che da tempo attendeva strumenti interpretativi, mentre Alberto Trobia presenta un’analisi basata su tecniche computazionali dei contenuti testuali e sonori di una selezione di canzoni presenti nelle classifiche italiane negli ultimi sessant’anni, offrendoci ottimi suggerimenti sulla trasformazione dei sentimenti degli italiani. In “Culture politiche/culture di massa”, i saggi di Alessandro Barile e di Alessandro Volpi hanno in comune l’esplorazione del rapporto tra politica e musica, in particolare di alcune dimensioni e declinazioni della relazione tra cultura comunista e, in termini più generali, di sinistra e popular music, che è ancora un aspetto poco studiato all’interno dell’ampia storiografia su cultura di massa e i partiti della Prima Repubblica. In “Back in the US”, Fernando Fasce ci regala una ricerca accurata che combina elegantemente storia culturale, sociale, politica e dei consumi nei long Sixties attraverso la figura e la carriera di John Lennon; il lavoro di Gioacchino Lanotte è un resoconto molto dettagliato di come due gruppi di americani – bianchi e neri – abbiano concettualizzato la guerra di Corea attraverso la musica. “In transito” si apre con lo studio sulla salsa latinoamericana come strumento di aggregazione e di resistenza delle comunità latine a New York negli anni Sessanta – al centro della ricerca di Fiamma Mozzetta – e della sua successiva commercializzazione a livello globale; lo segue Tristan Le Bras con una ricostruzione del ruolo delle black oriented radios e della black music negli USA degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, nella costruzione di comunità e di nuove categorie di consumatori. In “Galassie punk” entriamo negli anni Ottanta con Brenda Fedi che aggiunge nuove osservazioni alle consuete analisi del punk, come fenomeno musicale, estetico e culturale e costruisce un dialogo raffinato con le tesi e le interpretazioni più note sul realismo capitalista di Mark Fisher; Nicola Del Corno, invece, descrive i caratteri e gli approdi di una imprevedibile e ricca interazione tra i simboli, i suoni e i significati dello hardcore punk statunitense nel contesto delle culture giovanili in Italia in quel decennio. Nell’ultima sezione “Diventare moderni” ci avviciniamo ancora di più ai nostri giorni con il saggio di Fabio Milazzo su Franco Battiato, che mette a fuoco la capacità dell’artista siciliano di giocare con l’“alto” e il “basso”, di essere popular ed elitario, straniero e italiano, cioè di incarnare un paese in mutazione e sempre più moderno; infine, Olga Campofreda conclude il numero con una ricostruzione della cultura dei “paninari”, un “oggetto non identificato” tra moda e musica e tra anni Ottanta e Novanta, riprendendo e approfondendo i primi studi di David Forgacs e Robert Lumley. Una timeline dedicata al Festival di Sanremo – realizzata da Michele Simone – correda gli articoli di questo numero.
Ringraziamenti
Approfitto in queste ultime righe per ringraziare tutti e tutte coloro che hanno dedicato tempo ed energie alla riuscita di questa esperienza editoriale, in particolare Amoreno Martellini per i preziosi suggerimenti, la redazione e la commissione scientifica di Diacronie per la fiducia e Jacopo Bassi perché senza di lui nulla sarebbe stato possibile.
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NOTE
[1] DE STEFANO, Gildo, Una storia sociale del jazz. Dai canti della schiavitù al jazz liquido, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 16.↑
[2] SACKS, Oliver, Musicofilia. Racconti sulla musica e il cervello, Milano, Adelphi, 2007, p. 13.↑
[3] FANELLI, Antonio, Controcanto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, Roma, Donzelli, 2017, p. 7. ↑
[4] VARRIALE, Simone, Globalization, Music and Culture of Distinction. The Rise of Pop Music Criticism in Italy, London, Palgrave Macmillan, 2016, p. 2. Si vedano anche SANTORO, Marco, Effetto Tenco: genealogia della canzone d’autore, Bologna, Il Mulino, 2010; TOMATIS, Jacopo, Storia culturale della canzone italiana, Milano, il Saggiatore, 2019; SCIOLLA, Loredana, Il tradizionalismo senza identità degli italiani, in DOGLIANI, Mario, SCAMUZZI, Sergio (a cura di), L’Italia dopo il 1961. La grande trasformazione, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 239-266; BOURDIEU, Pierre, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 2001. ↑
[5] Antonio Gramsci offriva una triplice definizione dei canti popolari, a partire da una disomogeneità culturale del popolo: «Folklore. Una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri: 1°) i canti composti dal popolo e per il popolo; 2°) quelli composti per il popolo ma non dal popolo;3°)quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire. Mi pare che tutti i canti popolari si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione.», in GRAMSCI, Antonio, Quaderni dal carcere, Q 5, 156 – Folklore, in Quaderni del Carcere by Antonio Gramsci, International Gramsci Society Italia, URL: < http://quaderni.gramsciproject.org/ > [consultato il 14 marzo 2023]. ↑
[6] FABBRI, Franco, Canzone americana e canzone d’autore italiana, in ERNANI, Mattia, MALERBA, Chiara, PAPINI, Massimo (a cura di), Canzone d’autore e canzone politica. Atti dello stage tenuto a Camerano il 4-5 luglio 2009, Ancona, Affinità Elettive, 2009, pp.41-58, p. 41. ↑
[7] PORTELLI, Alessandro, «Cultura popolare e popular culture. Differenze e rapporti», in Il De Martino, 9, 1999, pp. 9-21. ↑
[8] GUNDLE, Stephen, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa, Firenze, Giunti, 1995. ↑
[9] SALVATI, Mariuccia, Le ragioni di un’iniziativa, in SALVATI, Mariuccia, ZANNINO, Lucia (a cura di), La cultura degli enti locali, 1975-1985, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 16. ↑
[10] FABBRI, Franco, Teorie e metodi nei popular music studies, in CARUSI, Paolo, MERLUZZI, Manfredi (a cura di), Note tricolori. La storia dell’Italia contemporanea nella popular music, Pisa, Pacini, 2021, pp. 28-40. ↑
[11] FASCE, Fernando, Dal consumatore al produttore. Percorsi di ricerca su consumi, attori sociali e identità individuali e collettive, in CAPUZZO, Paolo, Genere, generazione, consumi. L’Italia degli anni Sessanta, Roma, Carocci, 2003, pp. 19-27, pp. 19-22. ↑
[12] PORTELLI, Alessandro, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, Roma, Donzelli, 2015, p. 26. ↑
[13] ID., «Tipologia della canzone operaia», in Movimento operaio e socialista, 2, 1983, pp. 207-224. ↑
[14] FISHER, Mark, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Roma, Minimum fax, 2019, p. 44.↑
[15] PORTELLI, Alessandro, «Cultura popolare e popular culture. Differenze e rapporti», cit. ↑
[16] SORBA, Carlotta, MAZZINI, Federico, La svolta culturale. Come è cambiata la pratica storiografica, Roma, Laterza, 2021, p. 22. ↑
[17] MIDDLETON, Richard, Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, 2001; HESMONDHALGH, David, NEGUS, Keith, Popular Music Studies, London, Arnold, 2002. ↑
[18] MIDDLETON, Richard, op. cit., pp. 20-21. ↑
[19] TOMATIS, Jacopo, op. cit., p. 18. Alcuni nomi di riferimento: Alessandro Portelli, Stefano Pivato, Amoreno Martellini, Fernando Fasce, Giovanni De Luna, Marco Peroni, Alberto Banti, Goffredo Plastino, Paolo Carusi, Paolo Prato, Gioacchino Lanotte, Simone Tosoni, Marco Santoro, Paolo Magaudda, Massimo Locatelli, Elena Mosconi, Leonardo Campus, Carlotta Sorba, Irene Piazzoni, Jacopo Tomatis, Antonio Fanelli, Cecilia Brioni, Alessia Masini. ↑
[20] APPLEGATE, Celia, «Può la musica cambiare la società? Riflessioni su nazioni e cultura nazionale», in SORBA, Carlotta (a cura di), «Per una nuova storia sociale e culturale della musica», in Contemporanea, 3/2012, pp. 497-505, p. 501. ↑
[21] Ibidem. ↑
[22] PERONI, Marco, Il nostro concerto. La storia contemporanea tra musica leggera e canzone popolare, Milano, Mondadori, 2005, p. 37. ↑
[23] TOMATIS, Jacopo, op. cit., p.18. ↑
[24] Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei (1960), Stalingrado degli Stormy Six (1975), L’Avvelenata di Francesco Guccini (1976), invece di Marina di Rocco Granata (1960), Non sono una signora di Loredana Bertè (1982), Sei un mito degli 883 (1993) e Papa nero dei Pitura Freska (1997). ↑
[25] CARUSI, Paolo, Storia, popular music e immaginario. Un melting pot interdisciplinare, in CARUSI, Paolo, MERLUZZI, Manfredi (a cura di), op. cit., pp. 13-27, p. 13. ↑
[26] GINZBURG, Carlo, Occhiacci di legno. Dieci riflessioni sulla distanza, Macerata, Quodlibet, 2019, p. 270. ↑
[27] SORBA, Carlotta, Leggere i fenomeni musicali, in SORBA, Carlotta (a cura di), op. cit., pp. 493-497. ↑
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MASINI, Alessia, «Introduzione. Popular music e storia: media consumi e politica dagli anni Cinquanta agli anni Novanta», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, N. 53, 1|2023
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