ISSN: 2038-0925

Quel ragazzo col fazzoletto rosso al collo

«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato;
noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi
Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente,
munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli
atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla
e di farla osservare come legge dello Stato.
Da Torino addì 17 marzo 1861
».

Garibaldi-band

"IG_1993" by Genova città digitale on Flickr (CC)

Quando il 17 marzo di centocinquanta anni fa il Parlamento del Regno di Sardegna approvava la legge n. 4671 con cui veniva proclamata ufficialmente la nascita del Regno d’Italia e sancita l’unità della nazione italiana pochi probabilmente erano ben consapevoli del processo che stava alle spalle e che aveva portato alla pronuncia di quella astratta formula giuridica con cui «Vittorio Emanuele II assume[va] per sé e [per] i suoi Successori il titolo di Re d’Italia». Un proclama, quello, dal forte valore simbolico ma non per questo esaustivo e onnicomprensivo dei sentimenti, delle aspettative, degli intendimenti dei tanti che in vario modo si erano spesi per il raggiungimento di quell’obiettivo ma anche di chi non aveva preso parte o era comunque rimasto ai margini di quel processo che aveva portato gli stati italiani ad unificarsi in un unico regno. La parzialità, se così la si vuole intendere, ma anche la varietà e la diversità che caratterizzavano usi e costumi, lingue e dialetti, condizioni sociali, culturali ed economiche delle popolazioni che abitavano l’Italia d’allora erano in questo senso, e in modo speculare, anche diversità di sentimenti ed intendimenti. Una stratificazione e diversificazione emozionale che curiosamente possiamo scorgere ancora oggi, a distanza di centocinquanta anni nel sentire comune degli italiani; un patriottismo spesso ipocrita e demagogico allora si mescola (e si è mescolato) ad un “amor di patria” genuino e autentico ma spesso anche ingenuo, stati d’animo che ritroviamo quasi come reiterata contrapposizione delle storiche divisioni degli italiani fra guelfi e ghibellini, rossi e neri, settentrionali e meridionali e via dicendo, ovvero di quelle diversificazioni che hanno rappresentato la ricchezza oltre che una delle maggiori debolezze della nazione italiana intesa nel suo complesso e a vari livelli.

La questione fondamentale che si impone oggi alla nostra riflessione è capire quanto e cosa sia rimasto in noi, di quei sentimenti, di quegli intendimenti; ciò equivale a chiedersi cosa sappiamo e cosa conosciamo della nostra storia, non della storia d’Italia, ben inteso, ma della storia degli italiani, della storia degli uomini e delle donne che hanno “fatto”, vissuto, portato sulle spalle o in giro per il mondo in molti casi, la nazione italiana nell’ultimo secolo e mezzo.
Riuscire a rispondere a questa domanda non è cosa da poco; la soluzione al quesito condurrebbe infatti alla comprensione del nostro passato recente come del nostro presente più attuale, ma soprattutto consentirebbe, qualora le classi dirigenti ne cogliessero il messaggio, di tracciare o ribadire la direzione verso la quale poter portare il paese. Domande per rispondere alle quali la conoscenza della storia da sola risulta inevitabilmente insufficiente benché indispensabile. Vale la pena allora introdurre un concetto che porta ad affermare una visione, non nuova, ma che a nostro parere può costituire l’inizio come la conclusione di questa riflessione e che ci permetterà di azzardare una risposta; essa risulta apparentemente semplice ma si rivela quanto mai complessa e chiama in causa il concetto stesso di umanità: questa la si può definire come «la prerogativa dell’essere umano, intesa come complesso di caratteristiche, qualità, limiti peculiari alla condizione dell’uomo». Pur nei limiti di tale concezione, se concepita come essenza ontologica di un’entità definita, una nazione appunto come un semplice individuo, ma anche un messaggio, un’opera, un’azione, vediamo come questa definizione possa essere accostata a molti momenti, fatti, personaggi della nostra storia recente; quel concetto di umanità allora sembra assumere una peculiarità unica ed irripetibile, non migliore o superiore ad altre, ma unitariamente diversa da altri modi di rappresentare e vivere l’umanità, con condizioni e concezioni del vivere nel mondo diverse da altri popoli, da altre nazioni, da altre storie. E questo pur in un quadro di compenetrazione con le realtà nazionali, globali diremmo oggi, straniere, nelle quali l’Italia ha da sempre vissuto in stretta correlazione.
Un senso di umanità (e dell’umanità) che va esplicato e riportato così come è stato declinato dagli uomini e dalle donne che sono stati i protagonisti della storia italiana dal 1861 ad oggi: rientrano allora in questa prospettiva le opere e i pensieri dei patrioti risorgimentali come quelli dei partigiani del secondo dopoguerra che auspicavano e lottavano non solo per un’Italia unita e libera da potenze straniere ma anche per istituzioni e strutture politiche, sociali e culturali più moderne e democratiche. Rientrano nella stessa prospettiva le lotte sociali che gli italiani hanno condotto per un  miglioramento delle condizioni economiche e divita individuali come collettive nei diversi momenti della storia e in contesti differenti alla fine dell’Ottocento o nella seconda parte del XX secolo nelle città come nelle campagne. Un’umanità che risiede e che ritroviamo nell’ingegno, nella sensibilità, nella curiosità e nella passione impiegati dagli italiani nella costruzione di grandi opere architettoniche o nella scrittura di versi, romanzi o trattati così come nel concepimento di geniali scoperte scientifiche e nella progettazione di grandi e fondamentali invenzioni tecnologiche. Un’umanità, soprattutto, ravvisabile nell’incessante trascorrere degli attimi della quotidianità, nella normalità come nelle sue rotture e nelle sue crisi (in guerra come in pace potremmo dire), attimi spesso riportati e immortalati nella cinematografia come nella musica, non a caso divenuti entrambi emblemi “dell’italianità”, simbolo di un modo di intendere l’uomo e il procedere della sua vita nel tempo e nello spazio. Un’umanità insomma rintracciabile e sovrapponibile ad un determinato modo di sentire e pensare.

Diacronie offre una breve guida bibliografica e sitografica per il 150° dell’Unità d’Italia.

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