ISSN: 2038-0925

Focus: L’antislavismo

Diacronie > La trama e l’ordito: l’impresa di Fiume > Gabriele D’Annunzio > Focus: L’autonomismo fiumano

Durante il Risorgimento l’interesse di letterati, geografi e storici della penisola si era appuntato sugli elementi costitutivi della nazione, al duplice fine di studiarne le caratteristiche e di individuare potenziali alleati per il raggiungimento dell’indipendenza politica italiana. Fra questi alleati figuravano anche le genti di ceppo slavo. Negli anni Quaranta del XIX secolo Balbo, Gioberti e Cavour espressero viva simpatia per gli slavi sud-europei, visti come baluardo all’espansionismo russo. Anche Mazzini si soffermò a più riprese sulla questione slava e sul profilo territoriale del futuro stato italiano, sebbene la somma delle sue prese di posizione in proposito desse un risultato incerto. Se è vero che egli affidò all’Italia la missione di abolire il papato e cancellare dallo scacchiere europeo Austria e Turchia per mezzo di un patto strategico coi popoli slavi, è altrettanto vero che sulle cosiddette terre irredente avanzò opinioni oscillanti.10-031 : 50203
Talvolta egli asserì essere il Tirolo meridionale e l’Istria i confini naturali d’Italia, talaltra considerò la penisola istriana di pertinenza croata dal punto di vista geografico, ma aggregabile all’Italia qualora i suoi abitanti avessero democraticamente avanzato richiesta in tal senso. Ciò nonostante, il pensatore genovese non si stancò mai di ribadire l’opportunità di una cooperazione tra italiani e slavi meridionali in funzione antizarista, antiasburgica e antiottomana, con la meta di sostituire all’Europa dei troni l’Europa dei popoli. L’irredentismo di fine Ottocento, onda lunga del Risorgimento cavalcata dai seguaci di Mazzini, si prefisse l’accorpamento delle terre italofone d’Austria al Regno dei Savoia.
Esso non fu, però, né un partito né un movimento capace di suscitare adesioni unanimi, ma una galassia eterogenea di intellettuali e uomini d’azione non di rado in competizione tra loro; un brodo di coltura di leghe, gruppi, centri di propaganda in cui il problema dei rapporti tra italiani e slavi diede luogo a una gamma di soluzioni variegate, che spaziavano da un bonario paternalismo al razzismo scoperto. Un’opera dai contenuti esplicitamente antislavi fu redatta nel 1878 da Riccardo Fabris, un nativo di Lestizza emigrato in Italia e amico di Guglielmo Oberdan. Nel volume intitolato Il confine orientale d’Italia egli suggerì in alternativa al confine italo-austriaco d’allora il crinale delle Alpi Giulie, così da incorporare Gorizia, Trieste e Rovigno all’Italia. Secondo il friulano la superiorità numerica degli italiani nella zona era solo marginalmente scalfita dalla presenza slava, poiché l’elemento straniero si trovava nelle più recondite valli Alpine e «in tale stato di miseria e di inferiorità da costituire una minoranza spregevole accanto agl’italiani». L’auspicio era quello dell’assimilazione di ogni alterità nazionale nella cultura italiana, poiché, asserì Fabris, è «un fatto vecchio mille volte dimostrato, quello che i popoli di civiltà inferiori messi a contatto con genti più incivilite, perdono il loro carattere originale e finiscono coll’essere assorbiti e fusi nell’elemento migliore». Alcuni dei periodici e dei libelli irredentisti del periodo veicolarono i medesimi messaggi. In un articolo pubblicato nel 1885 sull’«Eco dell’Alpe Giulia», organo ufficiale del patriottico Circolo Garibaldi di Trieste, un anonimo giornalista descrisse gli slavi del Litorale come popoli disparati, primitivi, parlanti dialetti difformi, giunti da chissà dove ad occupare gli spazi limitrofi agli insediamenti degli italiani, dai quali ricevettero ospitalità ricambiata con
una gratitudine pian piano venuta meno a causa di sobillatori austriaci, che riuscirono ad inculcare nelle loro semplici menti la necessità di slavizzare Gorizia, Trieste e l’Istria.
Il topos dello slavo bifolco, senza storia e dignità nazionale, al quale altro non rimaneva che lasciarsi fagocitare dalla primeggiante civiltà latina, era il frutto di una visione irriducibilmente dicotomica del rapporto tra città e campagna nelle aree contese, che assegnava ai cittadini italiani il trofeo del progresso economico e sociale e ai rurali slavi un ruolo di minorità. Le metafore maggiormente utilizzate negli scritti irredentisti per dar conto dell’elemento slavo nell’ambito delle zone disputate erano quelle dell’«orda», della «valanga», dell’«invasione», della «marea». La sensazione resa era quella dell’accerchiamento, dell’emergere tumultuoso di popoli culturalmente fragili ma demograficamente vitali, in grado di cancellare per mezzo del mero numero l’indiscutibile marchio italiano della regione.
Nel primo Novecento venne radicalizzandosi il processo di delegittimazione degli slavi iniziato tempo addietro. La Fiume dannunziana ne è un esempio lampante e insieme controverso: la “città di vita” fu un laboratorio non solo politico, ma anche linguistico, dove coesistettero tutto e il contrario di tutto. Gli epiteti denigratori che il vate lanciava agli slavi s’affiancavano infatti alle proposte rivolte ai nazionalisti balcanici d’unire le forze per abbattere la dinastia serba regnante in Jugoslavia, massimo impedimento all’espansione italiana a est. E che la prosa dannunziana fosse intrisa d’antislavismo, non pare opinabile.
Già nel 1907, nella tragedia in versi La Nave, ambientata nel paesaggio fantasioso e orientaleggiante della Venezia delle origini, il poeta aveva menzionato i «ladri slavi» che tenevano «il mare», riferimento a quell’«amarissimo Adriatico» cui brindò nel gennaio 1908 durante un banchetto per festeggiare la messa in scena dell’opera. Nella Lettera ai Dalmati, del 1919, egli parlò esplicitamente di «accozzaglia» slava, termine che rimandava all’idea di confusione, di ammasso amorfo di genti disparate. Nel testo D’Annunzio riservò invettive velenose agli «Schiavi misti», «all’immondizia croata» bramosa d’accamparsi «nella Loggia dei magistrati veneti e nel Battistero di Andrea Alessi». Frasi che volevano suscitare, e di certo suscitavano, una fortissima reazione emotiva. A essere chiamato in causa, con indubbia scaltrezza retorica, era il patrimonio di storie, tradizioni e affetti che gli italiani potevano vantare: l’orgoglio d’appartenere a una civiltà che abbracciava l’antica Roma e la Venezia rinascimentale, costruttrice di magnificenze architettoniche e artistiche ora minacciate dalla cupidigia di un avversario allo stato brado. Il rapace slavo veniva concettualmente relegato agli infimi livelli biologici: «Or è pochi giorni, nella nobile Almissa, minor sorella di Spalato, il vinto, il nostro nemico vinto, il croato lurido, s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scarpellò il Leone alato».
10-031 : 50203Lo schema espositivo imperniato sull’antitesi supremazia latina-degradazione slava era efficace e toccava la sensibilità di uomini di destra e di sinistra profondamente amareggiati dall’ostracismo che nel 1919 l’Italia stava subendo al tavolo della pace di Parigi. Negli appelli, nei manifesti e nelle concioni dal balcone del palazzo di Fiume, i toni e i temi furono i medesimi. In Italia e vita il poeta soldato evocò uno scenario apocalittico: «il flutto della gente balcanica, il flutto della barbarie schiava» minacciava di rovinare su Trieste, di spingersi fin verso i valichi di Longatico, Nauporto e Prevaldo, che formavano «da tempo immemorabile la vera Porta d’Italia, la soglia latina calcata dalle incursioni boreali e orientali dei Barbari di ogni evo». Il confine da ripristinare era barriera scomparsa fra mondi diversi e discordi. Lo spazio violato da selvaggi provenienti da lande distanti recava i segni truculenti degli italiani uccisi: «Le case dei barbari sorgono dalle nostre rovine, e ci sembra che alle loro pietre siano mescolate le ossa dei nostri padri e che il loro cemento sia stemprato col sangue della nostra piaga». Esisteva, dunque, un abisso incolmabile fra due schiatte, una nobile e una animalesca, in secolare lotta fra loro.
Eppure D’Annunzio firmò a Fiume, il 12 maggio 1920, un patto con il ministro del governo in esilio Jovan Plamenac per restaurare il trono montenegrino di Nicola e liberare i popoli sotto dominazione serba, mentre i suoi luogotenenti si misero a più riprese in comunicazione con i separatisti che intendevano disgregare il Regno SHS, potenziali cobelligeranti nella battaglia comune. Questo miscuglio di disprezzo e allettamento strumentale, di negazione dell’altro e di lusinghe dettate da opportunismo politico, era l’ennesimo degli ossimori fiumani, ulteriore prova del groviglio di aspettative, correnti, visioni, iniziative che fu l’impresa dannunziana, chimera realizzata di un letterato narcisista e carismatico, capace d’incarnare speranze e illusioni di un’intera generazione di italiani.

Bibliografia

  • CATALAN, Tullia, MEZZOLI, Erica, «Antislavismo. Discorsi e pratiche in Italia e nell’Europa sudorientale tra Otto e Novecento», in Memoria e Ricerca, 3/2018, pp. 347-451.
  • MANENTI, Luca G., Geografia e politica nel razzismo antislavo. Il caso dell’irredentismo italiano (secoli XIX-XX), in CATALAN, Tullia (a cura di), Fratelli al massacro. Linguaggi e narrazioni della Prima guerra mondiale, Roma, Viella, 2015, pp. 17-38.
  • MANENTI, Luca G., TODERO, Fabio, Di un’altra Italia. Miti, parole e riti dell’impresa fiumana, Udine, Gaspari, 2021.

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