Focus: Sessualità a Fiume
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Nelle convulse giornate dell’occupazione dannunziana di Fiume convivono i modi più diversi di vivere la sessualità: si va dall’esaltazione della virilità e della mascolinità guerriera, doti che il comandante incarnava e che continuò a praticare anche nella città sul Carnaro, alla pratica dell’omosessualità, l’inclinazione all’ambiguità sessuale e la pratica della bisessualità.
Le pagine di apertura de Il porto dell’amore di Giovanni Comisso, ad esempio, sono pervase di erotismo omosessuale, né vi manca l’esplicito riferimento all’uso di cocaina a comporre il quadro di un’anti-società, un mondo alla rovescia fatto di trasgressione e di piena libertà. L’omoerotismo non era del resto stato estraneo al periodo della Grande guerra, quando ogni forma di affetto vi poteva apparire come un simbolo di pace e «il sesso della persona amata poteva non avere grande importanza», come ebbe a osservare G.L. Mosse. Se il ricordo dell’esperienza bellica era tutt’altro che estranea all’esperienza omosessuale, dietro alla pratica abbastanza libera dell’omosessualità durante l’Impresa fiumana potremmo cogliere una sorta di continuità con esperienze precedenti maturate ‒ o soltanto vagheggiate ‒ durante la guerra da parte di chi vi aveva preso parte e ne continuava a vivere l’atmosfera insieme ai propri commilitoni. Inoltre, gli atteggiamenti omosessuali e la loro esibizione da parte di intellettuali al seguito dell’Impresa vanno messi in relazione anche con l’adesione ai principi iconoclasti dell’avanguardia, che censuravano il filisteismo dei benpensanti borghesi.
Tra questi comportamenti anticonformisti vi era spazio anche per la pratica del naturismo, che ebbe allora in Guido Keller il suo più significativo rappresentante. Non a caso, ancora Comisso osservava che la guerra aveva creato nuove coscienze, che un mondo nuovo ne era scaturito e che l’Italia – di cui i legionari si consideravano gli autentici rappresentanti – doveva liberarsi dai principi e dalle abitudini che le erano stati imposti dalla “casta borghese”. Considerata particolarmente pericolosa in un organismo come l’esercito, e come tale duramente perseguita, nella Fiume dannunziana poteva così accadere che, per quanto diffusa tra le truppe, l’omosessualità non fosse trattata con altrettanta severità.
L’accettazione di comportamenti generalmente ritenuti «degenerati» dalla morale dell’epoca si inquadra in un contesto nel quale, a dispetto della parità dei diritti civili concessa a uomini e donne dalla Carta del Carnaro, si diffondeva la prostituzione, si intrecciavano amori più o meno leciti e il palazzo del governatore, a dispetto delle sue dichiarazioni di castità, continuava a vedere l’andirivieni di «signore e signorine» pronte a prestarsi agli insaziabili desideri del vate, come ha ricordato Giordano Bruno Guerri.
Emblematico dell’immagine della donna propria di questi ambienti è così la Trillirì dell’omonimo romanzo di Guido Carli, che per le sue caratteristiche si colloca al polo opposto di una cultura libertaria, aperta ‒ almeno sulla carta ‒ all’emancipazione femminile. L’immagine della Trillirì del romanzo, il tipo di rapporto tra uomo e donna che vi sono delineati rientrano infatti in uno stereotipo prettamente maschilista: l’uomo veramente maschio è capace di trattare la donna con pugno d’acciaio in guanti di velluto. La figura femminile proposta da Carli è quello della donna bambola e bambina, vezzeggiata dal maschio-guerriero e poi abbandonata una volta che questi se ne è stancato, totalmente incapace di autonomia fino all’autoannientamento; a questo, Carli contrappone lo stereotipo della femme fatale, capace di soddisfare e accondiscendere al ferino istinto erotico dell’uomo.
Tra questi poli, tuttavia, nel composito microcosmo fiumano al femminile, non manca lo spazio per un terzo tipo di donna, di cui è emblematica la figura di Margherita Incisa di Camerana: questa indossa con disinvoltura la divisa da ardito, ne porta il pugnale e si mescola tra gli uomini della Disperata. Accanto a lei, spicca la figura di Margherita Besozzi Keller, cugina di Guido Keller, collaboratrice della rivista del gruppo d’avanguardia fiumano Yoga, che non mancò di ostentare i suoi atteggiamenti emancipati, oltre che la sua vicinanza a D’Annunzio. In questo quadro, la figura di Luisa Baccara, la giovane pianista che raggiunse D’Annunzio a Fiume, ci appare come la tragica incarnazione della donna assoggettata al volere del maschio-guerriero, in questo caso D’Annunzio, il “maschio-guerriero” per antonomasia e vero deus ex machina dell’impresa.
Per la maggior parte delle donne di Fiume, tuttavia, i problemi erano di ben altra natura: la cura della famiglia, le preoccupazioni per la carenza di cibo e la sopravvivenza, per le difficoltà economiche. La diffusa presenza in città di tanti giovani maschi, non di rado indisciplinati, non ne rendeva certo più facile la vita. Né “donne-bambine”, né “maschiette” o “guerriere”, per le fiumane si trattava soprattutto di far fronte a una problematica quotidianità che vide le privazioni imposte dalla lunga guerra, apertasi per Fiume sin dall’estate del 1914, prolungarsi nei lunghi giorni dell’inquieto dopoguerra della città quarnerina.
Bibliografia
- CRISCIONE, Giusy, «Donne a Fiume tra libertà di pensiero e dissoluzione», in Qualestoria, 2/2020, pp. 213-222.
- MOSSE, George Lachmann, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997.
- REGLIA, Marco, Mascolinità devianti: dall’ex Litorale austriaco all’ex Venezia Giulia, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2020.
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