ISSN: 2038-0925

Devenir historien-ne: post #35

Prosegue la partnership avviata con Devenir historien-ne, il blog di informazione storica di Émilien Ruiz, Assistant Professor in Digital History presso il Dipartimento di Storia di Sciences Po a Parigi. Questo mese proponiamo la traduzione del post «Temps des faits, temps du film et temps de l’écriture : faire l’histoire de Shoah?».

La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.

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Tempi di fatti, tempi di film e tempi di scrittura: fare la storia della Shoah?
25 marzo 2017

di Rémy Besson

BESSON, Rémy, Shoah, une double référence ? Des faits au film, du film aux faits, Paris, MkF, 2017.

Shoah, une double référence ? Des faits au film, du film aux faits[] si basa sulla creazione e la diffusione del film Shoah di Claude Lanzmann, di cui il tema – l’uccisione degli ebrei col gas in uno stesso luogo tra il 1941 e il 1945 – e la forma – 9 e mezzo di testimonianze prive di immagini di archivio, di musica aggiunta al montaggio e di voci fuori campo – sono stati notati già dal 1985.
Il libro comincia con un racconto in due parti che non contiene neanche una singola nota a piè di pagina ed è consultabile online. La prima parte ha come oggetto l’uccisione degli ebrei nel campo di sterminio di Chełmno e un fatto avvenuto nel gennaio 1942: l’evasione da questo campo di Michael Podchlebnik e di Shlomo Winer, due membri dei Sonderkommandos – detenuti ebrei costretti a partecipare all’uccisione dei propri compagni. Questa evasione è nota, soprattutto grazie ad una lettera scritta dal rabbino di un villaggio vicino a cui uno dei due aveva parlato subito dopo essere scappato. Questa lettera è conosciuta da un pubblico molto più ampio del ristretto circolo di storici che studiano il tema, perché nel film Shoah (1985) Claude Lanzmann la legge direttamente in fronte alla telecamera. La seconda parte del testo introduttivo racconta di questa lettura, che ha luogo nello stesso villaggio in cui l’evaso aveva narrato la sua storia nel 1942.
L’introduzione del libro è incentrata su un tempo sospeso tra ciò che è accaduto al tempo dei fatti e il tempo del film. In quelle pagine si ricorda che Shlomo Winer – a quel tempo chiamato Szlamek – prima di essere ucciso ha testimoniato presso la resistenza ebraica del ghetto di Varsavia fin dal 1942 e che Michael Podchlebnik ha testimoniato a Chełmno nel 1945, poi al processo Eichmann (1961) e a Lanzmann per Shoah[]. L’assenza di note a piè di pagina nel racconto dell’evasione si spiega con il fatto che questo capitolo presenta direttamente fonti contemporanee ai fatti, le memorie viventi dei testimoni e gli studi storici su quello che è avvenuto a Chełmno in generale – l’uccisione di oltre 150.000 ebrei polacchi e di circa 5.000 zingari[] – e nello specifico quel giorno. In particolare, è presentata la traiettoria di diffusione della lettera. L’obiettivo del libro di trattare questo caso nel dettaglio è quello di far notare che la maggior parte dei testimoni filmati per Shoah si sono espressi prima del 1985, che altri tipi di fonti erano circolate prima della realizzazione del film e che racconti storici erano stati pubblicati già dal 1945.
In questa sede non vorrei tornare alla dimostrazione in sé perché è già inserita nel libro, ma concentrarmi sulle ragioni che sono all’origine di una tale scelta. Questo testo riguarda le modalità di comunicazione dei risultati di una ricerca e, più precisamente, sul periodo storico da prendere in considerazione. In termini generali, la domanda sarebbe: di che periodo si sta trattando quando si lavora su un film? Più nello specifico: di che periodo si sta trattando quando si lavora su un film che fa riferimento al passato? Andando ancora più a fondo: c’è qualcosa di particolare nel fatto che il film preso in considerazione sia formato dalle parole dei protagonisti della storia come nel caso di Shoah?
A questi interrogativi, ovviamente, non c’è un’unica risposta. Ci sono scuole storiografiche che hanno dato risposte alla prima domanda; infatti, da quasi mezzo secolo lo studio delle relazioni tra storia e cinema sta sviluppandosi. Una tendenza ritiene che sia la circolazione del film nello spazio pubblico a dover essere presa in considerazione per farne storia. Si tratterebbe, in questo caso, di storia della memoria incentrata su questioni legate al visivo. Come scrive Henry Rousso, il film viene così considerato un sintomo e un agente della storia, poiché costituisce «un indicatore significativo delle mentalità contemporanee», se non, in alcuni casi, perché «contribuisce a creare un cambiamento di mentalità»[]. Si va così a rafforzare, contraddire o completare la percezione che domina in una data società. Il ruolo del film varia a seconda delle appropriazioni di cui è oggetto: come viene visto, così come gli usi sociali del cinema che sono in questo caso posti al centro dell’analisi. Se avessi seguito solo questa tendenza il libro avrebbe dovuto cominciare nel 1985, con la prima diffusione pubblica di Shoah al teatro dell’Impero di Parigi Vi è, tuttavia, un’altra tendenza storiografica che si concentra sullo studio del tempo di produzione del film: in questo caso si tratta di comprendere la costruzione della narrazione audiovisiva creata da un gruppo ristretto di persone. Il ricercatore consulta le tracce di questo processo che vanno dalla prima nota d’intenti alle ultime tappe del montaggio. Quando possibile, può anche incontrare persone che hanno fatto parte della realizzazione del film, davanti o dietro alla telecamera. Il libro sarebbe dovuto iniziare nel 1973, quando Lanzmann accettò di trasporre in film l’opera che inizialmente gli era stata commissionata. Infine, è possibile incrociare i due filoni per mettere in risalto ciò che lo studio della circolazione e l’analisi del processo di produzione apportano alla comprensione del ruolo che il film ha ricoperto nella storia. Negli ultimi anni a guadagnare spazio è una forma di sintesi tra le due tendenze. Questa nuova prospettiva corrisponde, infatti, ad una reiscrizione nel campo della storia delle rappresentazioni che verte su «delle costruzioni culturali storicamente oggettivate»[] e non solo sulla rappresentazione (in questo caso un film) presa nella storia. È in questo momento storiografico che il libro si inserisce. Significa che ciò che è interessante non è tanto lo studio di una forma visiva precisa, quanto l’analisi dell’ambiente culturale in cui il film si svolge e la forma in cui l’ha trasposto. Un attento lettore del testo constaterà innanzitutto che allo studio della forma audiovisuale del film non è dedicata neanche una pagina. Si tratta della sua realizzazione e poi della sua diffusione. Il passaggio tra queste due parti è assicurato da un capitolo di riflessione riguardo allo stato attuale delle ricerche sui rapporti tra storia e cinema. Il libro si concentra principalmente su un periodo che va dall’inizio del progetto del film ad anni recenti, cioè dal 1973 al 2017.
Agli studenti che seguono il corso di Storia e cinema all’Università di Montréal insegno regolarmente l’importanza di non cadere in anacronismi. Per spiegarlo, utilizzo spesso un articolo di Pierre Sorlin in cui viene analizzato un corpus di film italiani sul Risorgimento. Il ricercatore spiega che lo studio storico dei film non fornisce informazioni sul periodo che essi rappresentano (Italia della metà del XIX secolo), ma sul tempo contemporaneo al loro processo di produzione e diffusione. Aggiunge che ciò costituisce un punto di partenza per qualsiasi analisi seria e non un qualsiasi risultato, perché «stabilire un’omologia di funzionamento tra uno strumento di espressione ideologica [il cinema, per Sorlin nel 1974] e una formazione sociale, mostrare che si illuminano reciprocamente, non è molto interessante: è ovvio che l’uno evochi se stesso»[]. Non è questo principio, che sta alla base della scrittura della storia, che voglio mettere in discussione.
Allora, ci si può chiedere di nuovo: perché far cominciare il libro nel gennaio 1942? La prima ragione si poggia sulla volontà di ricordare, anche brevemente, quello che è successo, ovvero che all’interno dei camion a gas di Chełmno gli Ebrei sono stati uccisi sistematicamente. Questo ha delle conseguenze sulla tipologia di testimonianza scelta. Equivale a considerarlo «prima come soggetto della visione, poi come soggetto della testimonianza, come soggetto della testimonianza in quanto soggetto della visione»[]. Mi è sembrato importante collocare all’inizio del racconto ciò che ha visto, ciò a cui ha partecipato in quanto protagonista della storia – il genocidio –. Ci sono conseguenze anche sulla narrazione che viene proposta nel prosieguo del libro. Per dirla semplicemente, è possibile che si dispieghi in tutta la sua complessità attraverso lo studio delle «costruzioni culturali storicamente oggettivate» proprio in quanto parte della constatazione che dei fatti le preesistono.
Lo studio che ho condotto non riguarda il genocidio, ma vi trova la sua origine. C’è un modo per evitare di dare ascolto alle maligne interpretazioni che vorrebbero vedere nella relativizzazione del carattere quasi sacro acquisito dal film all’interno dello spazio pubblico francese una messa in discussione rivolta al tempo dei fatti. C’è anche modo di creare una distanza tra ciò che è la Shoah – la condanna a morte di sei milioni di Ebrei – e ciò che è cinematografia – la realizzazione di un film chiamato Shoah. I due tempi sono presentati in maniera distinta fin dal prologo. Tuttavia, il modo migliore per creare questa distanza sarebbe stato sicuramente non iniziare mai questo lavoro. C’è spesso una tacita evidenza che la storia delle rappresentazioni non riguarda lo stesso periodo storico che si pone come oggetto degli eventi storici (una battaglia, un massacro, un genocidio)[].
Cominciando questo libro col tempo dei fatti, quello che volevo operare era tanto la creazione di una distanza quanto quella di un legame. Quello che a prima vista può sembrare un paradosso in realtà non lo è. Creare una distanza non significa che ci sia il tempo dei fatti da una parte e il tempo del racconto memoriale e storico dall’altra separati da una netta linea nel mezzo. Sono sempre stato infastidito dall’essenzialità di una distinzione temporale tra storia degli eventi e storia delle rappresentazioni[]. Al contrario, creare una distanza vuol dire anche mostrare in che modo il tempo della narrazione portato dai protagonisti della storia, così come quello condiviso dai ricercatori, trovino la loro origine nel tempo dei fatti. Il caso dell’evasione di Chełmno e della lettera del rabbino mi è utile per mostrare che tra il tempo dei fatti e quello delle rappresentazioni non esiste un rapporto di successione. Testimonianze orali sono state offerte fin dall’inizio del genocidio. Quando l’evaso parla al rabbino, l’uccisione è in corso. Queste testimonianze sono state rese. Quando il rabbino scrive la sua lettera, Auschwitz-Birkenau non è ancora un campo di sterminio. Sono circolate nei ghetti, al di fuori di questi e ben oltre la sola Polonia. Quando il racconto di uno dei fuggitivi è stato integrato in un libro pubblicato negli Stati Uniti[] eravamo ancora nel 1943. Come scrisse lo storico Shmuel Krakowski:

I detenuti ebrei del campo [di sterminio di Chełmno], languendo nelle condizioni più spaventose, hanno fatto ogni sforzo per allertare il mondo dell’esistenza del campo e per documentare nel dettaglio ciò che vi avveniva. Questi sforzi hanno avuto successo. I rapporti sono stati pubblicati durante la guerra e i ricercatori ne hanno avuto disponibilità[].

In seguito, a partire dal 1945, sono state raccolte testimonianze soprattutto dalla Commissione Centrale Storica Ebraica in Polonia (CZKH) e dalla Commissione per l’investigazione sui crimini tedeschi in Polonia. Non si è mai smesso.
Protagonisti della storia, ricercatori in scienze umane, artisti, giudici, editori, insegnanti, giornalisti si sono impadroniti di questa storia. Ciò permette di comprendere perché Shoah è, al tempo stesso, una proposta singolare e una forma che inserisce in un insieme di produzioni culturali che gli preesistevano. Ma può darsi, in modo ancora più interessante, che permetta di ricollocare le appropriazioni di cui il film di Lanzmann stesso è stato oggetto dopo il 1985 nella continuità di questi discorsi. Per dirlo con le parole di Christophe Granger, si tratta di:

restituire i “processi di costruzione memoriale”, da interrogare, in particolare, le lotte e le sfide di potere, talvolta considerevoli, di cui tale memoria e grandezza pubblica sono il prodotto, ma anche a ricostituire le relazioni che si sono potute instaurare grazie a memorie che ormai il senso comune contrappone[].

Così, la seconda parte del libro si concentra su come Shoah sia stato trasmesso nelle sale cinematografiche e in televisione, e poi ce ne si sia impadroniti, lo si abbia contestato, e progressivamente sia divenuto un riferimento condiviso in diversi ambienti sociali (istruzione pubblica, musei e memoriali, ambienti cinefili, scienze umane e sociali, ecc.).
Dal punto di vista della storia delle rappresentazioni, l’insieme dei dibattiti della stampa generalista alla sua uscita, i commenti da parte di altri artisti, le polemiche sulla rappresentazione del genocidio, l’integrazione più consensuale in seno all’istruzione pubblica, alla stampa cinefila ed in musei e memoriali, si inserisce in una forma di continuità, sicuramente tenue ma non per questo meno importante, con le prime parole pronunciate in seguito all’evasione di Chełmno e con le prime righe scritte in una lettera del gennaio 1942. Questi discorsi, diffusi nello spazio pubblico, in tutta evidenza non si limitano a riprendere ciò che è stato detto nel 1942 – molto spesso gli autori non ne sono a conoscenza – ma in un certo qual modo se ne emancipano; vi fanno riferimento tanto quanto si riferiscono al film.
Al termine di questo testo di riflessioni, rimane da precisare che le proposte di cui sopra non vogliono essere un programma. Le scelte che sono state esposte permettono di comprendere la realizzazione di una ricerca o, più precisamente, le decisioni relative al modo di comunicare i risultati di una ricerca. Altre opzioni sarebbero state possibili, magari anche più appropriate. In modo più critico, l’attenzione alla struttura del libro potrebbe essere, in realtà, solo l’ennesimo sintomo conseguente alla Dernière catastrophe – per riprendere il titolo del libro di Henry Rousso – sulla scrittura della storia del tempo presente. La necessità che durante questa ricerca ho sempre sentito di creare legami e distanze tra tempo dei fatti, tempo del film e tempo della scrittura, rimanda certamente ad una forma di consapevolezza acuta della compresenza nello spazio pubblico dei protagonisti della storia, dell’equipe del film e dei ricercatori che si appropriano oggi di ciò che Shoah è diventato per proporne una messa in scena. Non mi resta che sperare che la proposta formulata in questo testo non porti ulteriore confusione ma, al contrario, che la forma scelta abbia effetti euristici.

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  1. BESSON, Rémy, Shoah, une double référence ? Des faits au film, du film aux faits, Paris, MkF, 2017. []
  2. L’autore ha dedicato a questo incontro un articolo: BESSON, Rémy, «Entre mémoire singulière et histoire du singulier : la double anamnèse de Michael Podchlebnik dans Shoah», in Paroles Gelées, 27, 2013, pp. 41-54. []
  3. HILBERG, Raul, La Destruction des Juifs d’Europe, Paris, Gallimard, 2006. []
  4. ROUSSO Henry, Le Syndrome de Vichy : 1944-198…, Paris, Seuil, 1987, pp. 270, 275. []
  5. BRILLI, Elisa, «L’essor des images et l’éclipse du littéraire. Notes sur l’histoire et sur les pratiques de l’histoire des représentations» in L’Atelier du Centre de recherches historiques, 6, 2010, URL : < https://journals.openedition.org/acrh/2028 > [consultato il 19 luglio 2022]. []
  6. SORLIN, Pierre, «Clio à l’écran, ou l’historien dans le noir», in Revue d’Histoire Moderne et Contemporaine, 268, 1974, pp. 552-278. Qui bisognerebbe soffermarsi a precisare che il cinema non è solo una formazione ideologica, ma non è l’obiettivo del testo. Comunque, l’autore stesso è ritornato sul tema in:
    SORLIN, Pierre, Introduction à une sociologie du cinéma, Paris, Klincksieck, 2015. []
  7. DELHOM, Pascal, Les exigences du témoignage, in KRISTENSEN, Stefan, ALLOA, Emmanuel (sous la dir. de), Témoignage et survivance, Genève, MétisPresses, 2014, pp. 169-186, p. 170. []
  8. A titolo esemplificativo: l’appello alla comunicazione nel convegno «Mémoires des massacres du XXe siècle» del Mémorial de Caen e del CRHQ si preoccupa di precisare che si tratta di «concentrarsi sul solo aspetto della memoria dei massacri, non sui massacri stessi». []
  9. Sono stato molto influenzato dall’opera di Lucette Valensi, nonostante non abbia seguito fino in fondo il principio proposto. Infatti, nel libro, la ricercatrice dedica otto pagine introduttive ai tempi dei fatti (un avvenimento che dura una giornata) e il resto del libro a quello che ne è seguito nello spazio pubblico tra 1578 e inizio del XXI secolo. Si riprende l’apertura del primo capitolo: «Mormorii, gemiti, silenzio. All’indomani del 4 agosto [1578], la battaglia apparteneva già al passato […]» VALENSI, Lucette, Fables de la mémoire, La glorieuse bataille des Trois Rois (1578), Souvenirs d’une grande tuerie chez les chrétiens, les juifs et les musulmans, Paris, Chandeigne, 2009, p. 27. []
  10. APENSZLAK, Jacob et al., The Black Book of Polish Jewry, New York, American Federation for Polish, 1943. []
  11. KRAKOWSI, Shmuel, Chelmno. A Small Village in Europe. The First Nazi Mass Extermination Camp, Jerusalem, Yad Vashem, 2009, p. 10. []
  12. GRANGER, Christophe, «Libérer les historiens libres», in EspaceTemps.net, 2008 . []

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