ISSN: 2038-0925

Parole in storia: RIFUGIATO

di Michele PANDOLFO

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Il fenomeno delle migrazioni appartiene alla storia dell’umanità: sin dalle epoche antiche le popolazioni si sono spostate per cercare territori più ospitali, soprattutto dal punto di vista ambientale e climatico, rispetto ai primi insediamenti umani. In generale le migrazioni hanno attraversato le epoche storiche, andando a caratterizzarsi a seconda dei luoghi, delle popolazioni e dei processi storici coinvolti. Di conseguenza muoversi e cambiare dimora è sempre stata una prerogativa dell’umanità, tanto che nemmeno le più sfavorevoli circostanze hanno mai invertito tale tendenza, bensì solo rallentata.

Oggigiorno come in passato le cause dei fenomeni migratori sono numerose: la più rilevante si fonda sul confronto fra le concrete possibilità di vita nella regione d’origine e quelle nell’area di approdo. Dal XX secolo la netta divisione del mondo in un Nord economicamente sviluppato e in un Sud emergente rappresenta sicuramente la causa principale delle migrazioni. Inoltre, altre motivazioni dell’aumento dei flussi migratori avvenuti nel corso del Novecento sono state e possono ancora essere le seguenti: lo scoppio di una guerra civile, le persecuzioni politiche o religiose, le discriminazioni etniche, l’oppressione di regimi politici autoritari o, ormai non più da ultimo, le catastrofi naturali, che stanno diventando più frequenti, soprattutto a causa dei progressivi cambiamenti climatici.
La distanza tra l’area d’origine e quella di destinazione consente di distinguere fra migrazioni «interne» e «internazionali». La migrazione interna è lo spostamento nell’ambito dei confini di uno stesso Stato, mentre le migrazioni internazionali, che implicano un passaggio tra due o più frontiere politiche e quindi un cambiamento di nazione, hanno subìto nel corso del tempo forti variazioni nella consistenza e nella direzione dei flussi.
Negli ultimi decenni il numero di profughi è drasticamente aumentato: questi rappresentano tutti quegli individui che si spostano all’interno di paesi colpiti da conflitti, da lotte interne fra due o più etnie differenti, da gravi tensioni sociali o costante instabilità politica. Spesso accade che siano proprio i paesi economicamente più arretrati e meno sviluppati, che presentano già molti problemi endogeni, a dover ospitare un numero elevato di profughi sia interni che internazionali, in quanto provenienti da paesi limitrofi e confinanti.
Dal punto di vista linguistico e lessicale, nell’ambito del campo semantico delle migrazioni, sono emersi diversi termini e/o espressioni che hanno contraddistinto il contesto e il dibattito riguardante questa tematica. Tra questi si possono registrare, oltre al più generico migrante, le parole rifugiato, profugo e richiedente asilo.

Il rifugiato è colui che, temendo di essere perseguitato per motivi etnici, religiosi, di nazionalità o opinioni politiche, riesce a fuggire dal proprio paese e si trova in un’altra nazione, alla quale chiede protezione internazionale e la ottiene. Questa condizione è riconosciuta nella Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati approvata a Ginevra, in Svizzera, nel 1951, che costituisce uno spartiacque temporale fondamentale per questo discorso. Infatti, al termine della Seconda guerra mondiale, viste le atrocità commesse durante il conflitto, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) esortò gli Stati membri ad adottare delle norme che regolamentassero il diritto degli individui perseguitati nel proprio paese d’origine a chiedere aiuto e protezione in un paese confinante al proprio o in un altro più lontano. Nella Convenzione si attribuisce l’etichetta di rifugiato: «a chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi»[1].

Lo status di rifugiato è una condizione giuridica e quindi non si può confondere con il termine profugo, che definisce un individuo in fuga che non gode ancora del riconoscimento della protezione internazionale. Inoltre lo status di rifugiato può essere perso, come stabilisce la Convenzione stessa, nei seguenti casi: se la persona ha volontariamente richiesto la protezione dello Stato di cui possiede la cittadinanza; se ha volontariamente riacquistato la cittadinanza persa; se ha acquistato una nuova cittadinanza e gode della protezione dello Stato di cui ha acquistato la cittadinanza; se è volontariamente tornata e si è domiciliata nel paese che aveva lasciato o in cui non era più andata per paura di essere perseguitata; se, venute meno le circostanze in base alle quali è stata riconosciuta come rifugiato, ella non può rifiutare di domandare la protezione dello Stato di cui ha la cittadinanza; se, infine, la situazione nel suo paese d’origine è mutata positivamente. Inoltre la Convenzione afferma chiaramente che nessun rifugiato può essere respinto verso un paese in cui la propria vita o libertà potrebbero essere seriamente minacciate.
L’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) è l’agenzia delle Nazioni Unite, fondata nel 1950 e operativa dal 1951, che svolge il ruolo di garante della Convenzione di Ginevra: secondo le direttive gli Stati membri dovrebbero sempre collaborare con tale organizzazione per garantire che i diritti dei rifugiati siano rispettati e gli individui godano della protezione che dovrebbe loro spettare. Nelle intenzioni iniziali, il mandato temporale dell’UNHCR era a termine; di fatto è divenuto permanente solo dal 2003.

Al giorno d’oggi, a far salire vertiginosamente la curva delle persone in fuga nel mondo, ci sono le sempre più estese violazioni dei diritti umani, che avvengono in contesti di conflitto o di regimi politici autocratici, e le emergenze climatiche. Come fenomeno globale, le migrazioni mettono oggi in evidente discussione diversi fondamenti del patto di convivenza sociale all’interno dei singoli Stati e nelle relazioni internazionali: obbligano a ripensare vecchie e nuove categorie, come considerare chi è simile a sé e ridefinire chi sono invece gli stranieri e quale ruolo affidare loro nella società; a interrogarsi sui rapporti tra le diverse cittadinanze che sempre di più sussistono parallelamente l’una all’altra ma hanno pesi e influenze differenti; infine a rileggere criticamente i percorsi decisionali che producono, da una parte, un’auspicabile integrazione all’interno del corpo sociale e, dall’altra, un’inevitabile marginalità.

In questo contesto di riflessione, ciò che crea un’ulteriore incertezza è l’imprecisione linguistica con cui sono nominati e utilizzati i due termini, rifugiato e profugo, che afferiscono al tema delle migrazioni. Difatti, spesso, in maniera quasi indistinta, nei discorsi pubblici e negli spazi di discussione entrambe le parole vengono utilizzate, nella forma e nella sostanza, come dei sinonimi, senza considerare il fatto che si tratta di due termini con radici storiche e giuridiche diverse e che, di conseguenza, andrebbero usati in maniera più appropriata. Si avverte sovente una certa intenzionalità in questa confusione terminologica, che sembra trasformarsi, a volte, in una vera e propria strumentalizzazione linguistica: i motivi che stanno alla base di questa operazione potrebbero essere molti, come guidare verso rappresentazioni precostituite della realtà circostante oppure veicolare, tra le diverse opinioni pubbliche alle quali sono rivolti, dei messaggi manipolati di natura politica, economica o sociale riguardanti tematiche complesse al solo fine di raggiungere obiettivi spesso già predefiniti.
Per distinguere tra i diversi significati, si dovrebbe anche far riferimento alla decisione presa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che il 4 dicembre 2000 con la risoluzione 55/76, in occasione della ricorrenza, nel 2001, del 50° anniversario della Convenzione di Ginevra, ha istituito la Giornata mondiale del rifugiato, che ricorre il 20 giugno di ogni anno[2]. Sicuramente l’istituzione di una giornata dedicata a questa specifica figura giuridica è stata finalizzata da una parte a una maggior sensibilizzazione nei confronti delle condizioni di vita dei rifugiati che, ovunque siano, chiedono aiuto e protezione, e dall’altra alla risoluzione dei conflitti armati e al ristabilimento della pace in tanti luoghi martoriati del pianeta.

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NOTE


[1] La citazione si trova all’articolo 1, lettera A, paragrafo 2 del testo ufficiale della Convenzione di Ginevra, che è consultabile al seguente indirizzo internet,
URL: < https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2016/01/Convenzione_Ginevra_1951.pdf >
[consultato il 1° dicembre 2023]

[2] Il documento è consultabile al seguente indirizzo internet, URL:< https://undocs.org/Home/Mobile?FinalSymbol=A%2FRES%2F55%2F76&Language=E&DeviceType=Desktop&LangRequested=False > [consultato il 14 giugno 2024].

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Bibliografia essenziale

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Sitografia

Sitografia

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Galleria di immagini

Galleria di immagini

William McTaggart (1835–1910), The emigrants

1. William McTaggart (1835–1910), The emigrants, 1883-1889. Olio su tela, 141×9 cm. Londra, Tate Gallery.

Jan Rembowski (1879–1923), Uchodźcy

2. Jan Rembowski (1879–1923), Uchodźcy. Olio su tela, 200×284 cm. Varsavia, Museo nazionale.

Credits

  • Immagine 1: William McTaggart (1835–1910), The emigrants, 1883-1889. Olio su tela, 141×9 cm. Londra, Tate Gallery on Wikipedia Commons [Public Domain].
  • Immagine 2: Jan Rembowski (1879–1923), Uchodźcy. Olio su tela, 200×284 cm. Varsavia, Museo nazionale. [Public Domain].

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