ISSN: 2038-0925

Parole in storia: MELTING POT

di Tommaso Caiazza

Parole in Storia - Melting pot

L’espressione “melting pot” si afferma negli Stati Uniti per definire il popolo americano come fusione di elementi culturali e razziali originariamente eterogenei. Il precursore dell’idea fu un nobile francese emigrato oltreoceano a metà Settecento e naturalizzato J. Hector St. John de Crèvecoeur. In Letters from an American farmer (1782) rispose così alla sua celebre domanda “chi è, allora, l’americano quest’uomo nuovo?”

He is either an European, or the descendant of an European […] here individuals of all nations are melted into a new race of men [1].

Werner Sollors ha notato come l’immagine della “fusione” fosse intrisa di riferimenti biblici. L’America incarnava un nuovo ordine non più fondato sulla discendenza ma sul consenso, l’adesione volontaria a un processo di mescolamento che rigenera l’umanità dalle divisioni etniche del passato in nome di una ritrovata comunione universale [2].

Con tali pretese universalistiche, nell’Ottocento l’immagine della “fusione” assurse a simbolo del potere assimilatore dell’America. Tuttavia, non bisogna farsi ingannare dalla sua aura liberale e cosmopolita, suggerisce Philip Gleason. La fusione riguardava solo bianchi europei – nativi, neri, immigrati cinesi erano esclusi – e non doveva erodere il carattere originario della nazione stabilito dalla maggioranza inglese [3]. Ebbero modo di capirlo gli irlandesi. Il razzismo nei loro confronti rifletteva l’emergere di una identità nazionale incentrata sul primato della radice anglo-sassone.

L’assimilazione degli immigrati iniziò ad essere pensata più come uniformazione alle norme culturali vigenti che come fusione, secondo il principio poi detto dell’anglo-conformismo [4]. Ciononostante, a fine Ottocento la fiducia che la fusione avesse contribuito all’uniformazione era ancora diffusa. Frederick Jackson Turner (1893) assegnò alla “frontiera” un ruolo fondamentale al riguardo:

In the crucible of the frontier the immigrants were Americanized, liberated, and fused into a mixed race [5].

Fu però il drammaturgo inglese Israel Zangwill a coniare l’espressione “melting pot” con un’omonima pièce teatrale messa in scena a Broadway nel 1908. L’immagine della fusione venne trasformata in metafora compiuta dell’America come “calderone” (pot) in cui l’amalgama assume un’accezione davvero universale. La vicenda narra la relazione di una giovane coppia newyorkese di origini russe costretta a fare i conti con le origini familiari. Lui viene da una famiglia di ebrei reduci dal pogrom di Kishinev, lei da una cosacca anti-semita che ha contribuito al massacro. La relazione è inoltre insidiata da un pretendente snob razzista americano, che nell’opera rappresenta la società bianca anglo-sassone [6].

Quando Zangwill mise in scena The melting pot, l’ideologia della superiorità anglo-sassone raggiungeva il suo apice. La fiducia nelle capacità di assimilazione della nazione era crollata con la chiusura della frontiera e il riversarsi nelle città dei “nuovi immigrati” dal sud e dall’est Europa. Il trionfo finale dell’amore tra i due giovani al contrario simboleggiava l’ineluttabilità del melting pot che non ammetteva distinzioni etniche e religiose, come testimonia lo scambio conclusivo di battute tra i due protagonisti:

David: […] The Great Melting Pot—listen! Can’t you hear the roaring and bubbling? […] Celt and Latin, Slav and Teuton, Greek and Syrian, black and Yellow.

Vera: Jew and Gentile.

David: Yes […] here shall they all unite to build the Republic of Man and the Kingdom of God [7].

Con il Primo conflitto mondiale si sollevò un’ondata di nazionalismo negli USA. Il concetto di melting pot iniziò a essere usato in senso conservatore, come sinonimo di assimilazione degli immigrati nel modello anglo-sassone. Fu usato per esempio come simbolo delle campagne di “americanizzazione”. È il caso delle Melting Pot Ceremonies organizzate dalla Ford per gli impiegati di origine straniera al termine del corso di lingua inglese [8].

Emersero le prime reazioni alla visione dell’America quale melting pot. In Democracy versus the Melting Pot (1915) – base della futura teoria del “pluralismo culturale” – Horace Kallen negò che la rinuncia da parte degli immigrati alle loro culture d’origine in favore di una presunta sincretica identità americana o di un’artificiale uniformità anglo-sassone fosse possibile e auspicabile. Gli immigrati mantenevano saldi legami con la loro etnicità. Ciò non solo era utile nel processo di integrazione, ma era in linea con gli ideali liberali e democratici statunitensi. Per Kallen l’America doveva rappresentare una federazione, e non una fusione, di diverse nazionalità [9].

La critica di Kallen al melting pot avviò una riconsiderazione delle relazioni interetniche negli USA. Significativa fu la tesi elaborata negli anni Quaranta dalla sociologa Ruby Jo Reeves Kennedy sulla base di un’analisi dei matrimoni misti a New Haven tra il 1870 e il 1940. Secondo lo studio, quello che stava prendendo forma attraverso le unioni coniugali tra membri di diversi gruppi europei non era un melting pot “singolo”, ma “triplo” organizzato lungo le linee cattolica, protestante ed ebraica. Nemmeno tra i bianchi, quindi, era intervenuta una fusione unitaria [10].

Bisogna aspettare gli anni Sessanta per arrivare a una piena negazione del melting pot. In Beyond the melting pot (1963) – ricerca su afro-americani, portoricani, ebrei, italiani e irlandesi a New York – Nathan Glazer e Daniel Moynihan decretarono: «The point about the melting pot is that it did not happen» [11]. Attribuivano ciò non tanto al persistere delle culture d’origine ma ai legami d’interesse consolidati nei e tra i diversi gruppi etnici. Questi infatti andavano considerati come prodotto della stessa società americana e delle sue tendenze sistemiche alla riproduzione e trasformazione delle divisioni. In generale Glazer e Moynihan ritenevano che i legami etnici sarebbero svaniti man mano che i vari gruppi raggiungevano uno status di classe media. Nel medio termine prospettavano però un’America divisa su basi religiose e razziali tra cattolici, ebrei, bianchi protestanti e neri.

Anche Milton Gordon, in Assimilation in American life (1964), sostenne che l’idea di un unico melting pot non era stata che un’«illusione» [12]. Dal punto di vista culturale, i diversi gruppi etnici più che fondersi erano stati riplasmati dallo stampo anglo-sassone fino a diventare compatibili col modello dominante. Né il melting pot si era realizzato da un punto di vista strutturale, cioè dell’accesso dei diversi gruppi al vertice della società. La società bianca protestante (inglese, tedesca e scandinava) restava impermeabile agli europei cattolici ed ebrei, tra i quali era appena iniziato il dissolvimento delle appartenenze nazionali. Nel caso di neri, asiatici, messicani e portoricani, le discriminazioni razziali rendevano al momento impossibile una fusione strutturale.

Il “revival etnico” degli anni Settanta spinse il filosofo cattolico Michael Novak a prevedere che nemmeno tra i gruppi di origine europea si sarebbe mai verificata una fusione. Nel nuovo clima politico, segnato dall’avanzare del movimento per i diritti civili e del multiculturalismo, il risveglio dei legami con le terre d’origine tra le terze e quarte generazioni italiane e polacche sembrò confutare, ancora una volta, il compimento del melting pot [13].

Altri studi, al contrario, suggerirono in primo luogo che tale risveglio dell’identità etnica aveva un carattere non più che “simbolico” e, in secondo luogo, che una fusione tra i gruppi europei era in realtà in atto: le tradizionali divisioni tra cattolici e protestanti si stavano erodendo tramite mobilità sociale e matrimoni misti [14]. La comune affiliazione “razziale” di euro-americani bianchi iniziava a prevalere sulle distinzioni etniche interne.

Mentre nell’accademia proseguiva il dibattito, a livello istituzionale si affermò l’idea di un “quintuplo melting pot” o “pentagono etno-razziale”: la distinzione oggi classica tra euro-americani, asiatico-americani, nativi, afro-americani e ispanici [15]. Come nota David Hollinger (1995), tali categorie emersero quali criteri di censimento per avviare le politiche di “affirmative action” contro le discriminazioni razziali, e non come prodotto di una reale fusione. Ciononostante, nel contesto di definitiva contestazione dell’ “anglo-conformismo”, i fautori del multiculturalismo adottarono il pentagono etno-razziale per difendere la diversità interna al Paese che andava aumentando dopo la riforma in materia di immigrazione del 1965 (Hart-Celler Act). Il pentagono etno-razziale ebbe il merito di smascherare il mito di un melting pot che, nella realtà dei fatti, riguardava solo i bianchi di origine europea. Tuttavia, sul lungo periodo esso divenne un modo quasi naturale di intendere le differenze culturali, se non razziali, negli USA, sebbene, rimarca Holliger, il fine originario dei “cinque blocchi” fosse combattere il razzismo radicato proprio nella percezione di tali differenze [16].

Alla storica immagine del melting pot si andò affiancando, in competizione, la contro-immagine della salad bowl, l’insalatiera nella quale i diversi ingredienti (etno-culturali) coesistono senza mescolarsi, preservando ciascuno la propria dignità e integrità rispetto all’elemento dominante [17].

All’alba del Ventunesimo secolo la metafora del melting pot è stata rivalutata. Secondo Stephan Thernstrom gli immigrati europei possono ormai dirsi assimilati nel mainstream americano. Gli alti tassi di esogamia, l’abbandono della lingua d’origine, la scomparsa delle varie Little Italies e Poletowns lasciano intendere che nel loro caso l’etnicità ha assunto un carattere meramente simbolico. Thernstrom è convinto che lo stesso accadrà per gli immigrati più recenti di origine ispanica e asiatica perché il «melting pot americano è tanto forte oggi quanto lo era in passato» [18].

Questa visione ottimistica sembra confortata dal graduale aumento del mescolamento etnico che ha giustificato l’introduzione nel 2000 della categoria “two or more races” nel censimento americano [19]. Tuttavia, come afferma Stephen Steinberg, l’incedere del melting pot continua a lasciare insoluto il problema della “linea del colore”. Per gli afro-americani, secondo Steinberg, il melting pot non sarà possibile finché le «strutture dell’apartheid americana» non saranno «smantellate» e le «persistenti ineguaglianze risolte» [20].

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NOTE


[1] ST. JOHN DE CRÈVECOEUER, Jean Hector, Letters from an American farmer, New York, Fox, Duffield & Company, 1904, pp. 54-55.

[2] SOLLORS, Werner, Beyond ethnicity: consent and descent in American culture, New York, Oxford University Press, 1986, pp. 75-88.

[3] GLEASON, Philip, American identity and Americanization, in THERNSTROM, Stephan (edited by) Harvard encyclopedia of American ethnic groups, Cambridge, Belknap press of Harvard University, 1980, pp. 38-39.

[4] La definizione di “anglo-conformismo” è in GORDON, Milton, Assimilation in American Life: the role of race, religion, and national origins, New York, Oxford University Press, 1964, p. 84.

[5] TURNER, Frederick Jackson, The frontier in American history, New York, Henry Holt and Company, 1920, p. 23.

[6] Per una analisi critica dell’opera di Zangwill si veda SOLLORS, Werner, op. cit., pp. 67-75.

[7] ZANGWILL, Israel, The Melting-Pot. Drama in four acts, New York, The Macmillan Company, 1912, pp. 198-199.

[8] Cfr. Melting Pot Ceremony at Ford English School, July 4, 1917, URL: <https://www.thehenryford.org/collections-and-research/digital-collections/artifact/254569/> [consultato il 20 ottobre 2018].

[9] «Democracy vs the Melting Pot» fu pubblicato nel 1915 in una coppia di articoli sulla rivista The Nation (25 febbraio). Fu poi successivamente ripubblicato in una raccolta di saggi: KALLEN, Horace M., Culture and democracy in the United States, New York: Boni and Liveright, 1924.

[10] KENNEDY, Ruby Jo Reeves, «Single or Triple melting pot? Intermarriage trends in New Haven, 1870-1940», in American Journal of Sociology, 49, 4/1944, pp. 331-399. La teoria del triplo melting pot fu poi resa popolare da HERBERG, Will, Protestant, Catholic, Jew. An essay in American religious sociology, Garden City, Doubleday, 1955.

[11] GLAZER Nathan, MOYNIHAN, Daniel P., Beyond the Melting Pot. The Negroes, Puerto Ricans, Jews, Italians and Irish of New York City, Cambridge, The MIT Press, 1970, p. xcvii.

[12] GORDON, Milton, op. cit., p. 129.

[13] Le definizioni sono di HOLLINGER, David A., Postethnic America. Beyond multiculturalism, New York, Basic Books, 1995, pp. 23-24.

[14] Ibidem, pp. 38-39.

[15] L’immagine della “salad bowl” può essere ricondotta al modello di integrazione detto del “mosaico etnico”, che infatti nel dibattito sull’immigrazione è solitamente contrapposto al modello del “melting pot”. Per approfondire KYMLICKA, Will, La cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999.

[16] THERNSTROM, Stephan, Rediscovering the Melting Pot˗ Still going strong, in JACOBY, Tamar (edited by), Reinventing the Melting Pot. The new immigrants and what it means to be American, New York, Basic Books, 2004, pp. 47-59.

[17] JONES, Nicholas A., SYMENS SMITH, Amy, United States Census 2000 : The Two or More Races Population: 2000, 11/2001, URL: < https://www.census.gov/prod/2001pubs/c2kbr01-6.pdf > [consultato il 20 ottobre 2018].

[18] STEINBERG, Stephen, The Melting Pot and the color line, in JACOBY, Tamar (edited by), op. cit., pp. 246-247. Steinberg ha quindi prospettato la possibilità di un melting pot “duplice”: ID., «The Dual Melting Pots», in Black Agenda report, 19 settembre 2007, URL: < https://www.blackagendareport.com/content/dual-melting-pot > [consultato il 20 ottobre 2018].

Bibliografia essenziale

Bibliografia essenziale

  • GLAZER, Nathan, MOYNIHAM, Daniel P., Beyond the Melting Pot. The Negroes, Puerto Ricans, Jews, Italians and Irish of New York City, Cambridge, The MIT Press, 1970.
  • GLEASON, Philip, American identity and Americanization, in THERNSTROM, Stephan (edited by) Harvard encyclopedia of American ethnic groups, Cambridge, Belknap press of Harvard University, 1980, pp. 38-39.
  • GORDON, Milton, Assimilation in American Life: the role of race, religion, and national origins, New York, Oxford University Press, 1964, pp. 115-131.
  • JACOBY, Tamar, Reinventing the Melting Pot. The new immigrants and what it means to be American, New York, Basic Books, 2004.
  • SOLLORS, Werner, Beyond ethnicity: consent and descent in American culture, New York, Oxford University Press, 1986, pp. 66-101.

Galleria di immagini

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L’idea del melting pot è presente, anche se non ancora popolare, nella pubblicistica americana già prima di Zangwill. Lo dimostra questa vignetta della fine degli anni Ottanta dell’Ottocento in cui gli irlandesi sono raffigurati come gli unici che non si mescolano nel 'mortaio' dell’assimilazione.

1. L’idea del melting pot è presente, anche se non ancora popolare, nella pubblicistica americana già prima di Zangwill. Lo dimostra questa vignetta della fine degli anni Ottanta dell’Ottocento in cui gli irlandesi sono raffigurati come gli unici che non si mescolano nel “mortaio” dell’assimilazione.

La locandina del film <em>Le couperet</em> di Costa-Gavras" in

2. Melting Pot Ceremony organizzata dalla Ford English School il 4 luglio 1917. I lavoratori immigrati che hanno terminato il corso di lingua inglese escono dal “melting pot”, che simboleggia non una neutrale “fusione” ma l’abbandono delle culture d’origine a favore dell’americanizzazione.

Credits

  • Immagine 1: TAYLOR, Charles Jay, «The Mortar of Assimilation – And the One Element that Won’t Mix», in Puck, 26 giugno 1889, in HERB: Resources for Teachers,
    URL: < https://herb.ashp.cuny.edu/items/show/642 >.
  • Immagine 2: P.O.7227 in From the Collections of The Henry Ford,
    URL: < http://www.autolife.umd.umich.edu/Labor/L_Overview/FordEnglishSchool.htm >.

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