ISSN: 2038-0925

ControVersa: CONTINUITÀ / DISCONTINUITÀ NELLA CENSURA IN ITALIA NELLA SECONDA METÀ DEL NOVECENTO

di Flavia Erbosi

Una chiara cesura istituzionale permette di distinguere l’Italia liberale da quella fascista e poi repubblicana. Tale affermazione rimane valida se si prendono in considerazione le norme che regolarono la censura e, più in generale, le politiche culturali espressione del potere politico? L’elevato numero di leggi che furono prima approvate e poi abrogate in materia di censura dall’Unità d’Italia fino agli anni Sessanta del Novecento farebbero presupporre una risposta affermativa.
La censura della stampa, ad esempio, è caratterizzata da una relativa discontinuità. Lo Statuto Albertino autorizzava la censura repressiva, ma non quella preventiva [1] (le pubblicazioni cioè non erano soggette a controllo governativo prima della loro diffusione, ma potevano essere sottoposte a processo e eventualmente sequestrate per ordine di un magistrato). Durante il Ventennio, si passò a un inasprimento delle norme sul sequestro della pubblicistica e del libro stampato e, con alcune circolari del 1935 e con la creazione del Minculpop, a una forma ufficiosa di controllo preventivo, sancito infine dall’istituzione della Commissione della bonifica libraria (1938) e dalla compilazione dell’elenco degli autori non graditi [2]. Nel secondo dopoguerra, smussando le norme più imbarazzanti volute dal fascismo, si fece ritorno alla prassi in voga in età liberale, rinforzata dall’abolizione della censura preventiva per via amministrativa e dall’articolo 21 della Costituzione, che pure continua a mettere in guardia dalle pubblicazioni «contrarie al buon costume».
Eppure, sulla scorta delle denunce avanzate fin dagli anni Cinquanta (tra tutte si ricorda quella di Vitaliano Brancati [3]), almeno dagli anni Sessanta la storiografia sostiene che la sostanza e l’orientamento del controllo politico sulla produzione culturale non subì una mutazione radicale attraverso i vari regimi istituzionali dell’Italia unita. Le continuità delle politiche culturali tra l’Italia liberale, fascista e quindi repubblicana, «furono più significative dei cambiamenti» [4]. Secondo le interpretazioni ad esempio di David Forgacs, Stephen Gundle e Patrizia Ferrara, i criteri fondanti la censura hanno sopportato bene il susseguirsi dei governi e delle costituzioni e, pur soffrendo il peso degli anni, hanno saputo di volta in volta reinventare il proprio aspetto, per rimanere pressoché immutabili nella sostanza.
Prova di tale continuità sono le misure adottate nei confronti delle arti dello spettacolo, che furono molto coerenti, oltre che caratterizzate da un più rigido e pervasivo controllo in quanto opere di cultura destinate a un pubblico di massa. Attuato per mezzo di una censura sia preventiva che repressiva fin dall’Unificazione, il controllo del teatro venne affidato alternativamente ai prefetti e agli uffici centrali, questi ultimi alle dipendenze prima del Ministero dell’Interno poi di quello della Cultura Popolare e, con la Repubblica, facenti capo alla Presidenza del Consiglio, almeno fino all’istituzione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Anche gli articoli del Codice Rocco che regolavano le pene per le rappresentazioni abusive subirono solo lievi mutamenti con il passaggio dalla dittatura alla democrazia. Quanto al cinema, dopo un breve periodo di competenza prefettizia, fin dai primi anni Dieci la censura divenne la priorità dell’Ufficio Centrale per la Cinematografia. Dapprima, a essere sottoposta a revisione doveva essere la sceneggiatura, poi il prodotto finito: entrambi dovevano risultare a norma delle leggi fasciste. Durante la cosiddetta Prima Repubblica, la revisione dei soggetti e dei copioni, pur formalmente abolita, venne ufficiosamente reintrodotta. La censura democristiana si rivelava più scaltra di quella fascista, ma non meno rigida. Con l’avvento della televisione, venne introdotto un innovativo metodo di controllo: il monopolio di Stato.
Parallelamente alle norme che regolavano la censura, anche i motivi che la giustificavano (offesa al buon costume o alla morale cristiana, turbamenti nell’ordine pubblico, oltraggio alle autorità religiose, politiche e militari, incitamento all’odio tra le classi e alla violazione delle leggi…) non videro particolari stravolgimenti nel corso di cento anni di storia, fatta eccezione per alcune eclatanti e circostanziate questioni che sembrano confermare la regola piuttosto che segnare una sensibilità mutata. Casi straordinari che venivano per lo più motivati da precisi avvenimenti politici e che si preferiva dirimere tramite circolari ministeriali invece che atti legislativi. Inoltre, le stime fino ad ora calcolate dalla letteratura sul tema dimostrano che a essere censurata fu, in proporzione, sempre la stessa quantità di opere, che, per quanto riguarda il teatro, si attesta sul 10% dell’intera produzione sottoposta a revisione [5].
Tuttavia, altre letture storiografiche non hanno mancato di sottolineare elementi di rottura. Ad esempio, Giovanni Sedita [6] ha sottolineato che, almeno per tutti gli anni Cinquanta, la censura democristiana non può essere considerata solo in relazione alla sua continuità con la censura fascista, ma va inserita nel quadro della Guerra fredda, condotta anche sul piano delle politiche culturali. Si può poi ipotizzare che, nell’Italia nuovamente democratica, la libertà riacquisita abbia favorito un minor grado di auto-censura da parte dell’artista nella proposta di opere di teatro, di cinema o di letteratura.
Inoltre, nonostante l’andamento della censura tra gli anni Sessanta del XIX secolo e gli anni Sessanta del XX sembri seguire un percorso lineare, senza eccessivi sbalzi e fratture, le forme di controllo preventivo saranno soggette a una contraddittoria, seppur inevitabile evoluzione, legata al più complessivo mutamento delle condizioni sociali ed economiche del paese. Infatti, a partire dal secondo dopoguerra sono stati affermati alcuni innovativi principi di non secondario valore teorico che avrebbero potuto garantire una netta discontinuità.
Ad esempio, il fatto che la Costituzione italiana con l’articolo 33 per la prima volta si impegnasse a tutelare la libertà dell’opera artistica fu un fattore determinante. Tale norma costituzionale andava così a integrare l’articolo 529 del Codice penale, che escludeva dai reati a mezzo stampa le opere con un riconosciuto valore artistico, che, in quanto tali, non potevano avere carattere di oscenità. Pertanto, almeno per quanto riguarda la stampa, non sottoposta a censura preventiva, proprio sull’appartenenza o meno di una pubblicazione alla sfuggente categoria delle opere d’arte si giocarono la maggior parte dei processi della Prima Repubblica. Inoltre, un grimaldello su cui fecero leva molti giudici nell’assolvere libri accusati di ledere la morale e che costituì un precedente giurisprudenziale, fu il criterio che l’oscenità non si potesse riscontrare nel «contenuto ideologico» di un’opera, ma nella sua «manifesta e percepibile manifestazione» [7]. Potevano essere sì colpiti singoli passi o dialoghi ritenuti offensivi, ma non poteva essere posto sotto accusa l’intero sistema di valori e di significati di cui l’opera d’arte si faceva portatrice. Infine, una sentenza di Cassazione del 1959 invitò ad aggiornare i criteri con cui si poteva procedere al sequestro, prendendo in considerazione il «carattere» e lo «scopo della pubblicazione vagliata» e il «modo con cui l’attività creativa o narrativa si esplica» [8] .
Eppure, per quanto riguarda il cinema, le commissioni di revisione preventiva, che agivano prima che il film venisse distribuito, nella segretezza delle loro deliberazioni spesso esercitavano un controllo censorio più rigoroso proprio nei confronti dei film d’autore, mentre pellicole apertamente pornografiche e di bassa lega ricevevano il nulla osta senza grandi complicazioni [9]. Tuttavia, sul tema ci sono opinioni discordanti: come dimostra la bibliografia più recente [10], non deve infatti essere sottovalutato il minuzioso lavoro di denuncia di film tacciati di oscenità portato avanti con capillare meticolosità ad esempio dal Segretariato per la moralità dell’Azione Cattolica o dal Centro Cattolico Cinematografico, i quali operavano un’attiva sorveglianza che coinvolgeva tutti i prodotti cinematografici e non solamente quelli d’autore.
Infine, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, la censura si distanzia da quella fascista e, prima ancora, liberale, in termini di progressiva riduzione della sua azione [11]. Un chiaro esempio è il fatto che il 21 aprile 1962 con la legge n. 161 venne finalmente abolita la censura preventiva delle opere teatrali. La graduale riduzione dell’azione censoria sembra però rispondere al più complessivo mutamento dei consumi culturali, conducendo a un disimpegno generalizzato (tanto dei governi, quanto delle opposizioni) da qualsivoglia idea di “politica culturale”. In questo più sfumato quadro, la diatriba tra continuità e discontinuità può rivelarsi insufficiente a comprendere il progressivo e profondo mutamento del paesaggio culturale e del rapporto tra arte e potere politico. Basta, oggi, segnalare il notevole grado di continuità che contraddistinse taluni apparati dello Stato nel passaggio tra fascismo e democrazia? L’evoluzione della censura dimostra di no: la trasformazione avvenuta nel corso dei decenni successivi agli anni Cinquanta mette in rilievo soprattutto una diversa idea di interventismo culturale, che nello scorrere del tempo cambia di segno e, progressivamente, si affievolisce, perché a ridursi è la portata ideologica dello scontro politico, di cui la cultura costituiva uno dei terreni privilegiati.
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NOTE


[1] Cfr. FRAJESE, Vittorio, La censura in Italia. Dall’Inquisizione alla Polizia, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 205-206.

[2] Per la censura libraria nell’Italia fascista si rimanda almeno a BONSAVER, Guido, Censorship and Literature in Fascist Italy, Toronto, University of Toronto Press, 2007.

[3] Cfr. BRANCATI, Vitaliano, Ritorno alla censura, in DONDERO, Marco (a cura di), Romanzi e saggi, Milano, Mondadori, 2003, pp. 1499-1567.

[4] FORGACS, David, GUNDLE, Stephen, Cultura di massa e società italiana. 1936-1954, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 24-25.

[5] Cfr. BONSAVER, Guido, Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 89; FESTA, Federica, Teatro proibito. In scena i tabù di una nazione, Spoleto, Editoria&Spettacolo, 2011, p. 31.

[6] Cfr. SEDITA, Giovanni, «Giulio Andreotti e il neorealismo. De Sica, Rossellini, Visconti e la guerra fredda al cinema», in Nuova storia contemporanea, 16, 1/2012, pp. 51-70, p. 69.

[7] Si cita dalla sentenza del Tribunale di Roma al processo per oscenità contro L’Arialda di Giovanni Testori, del 23 aprile 1964, trascritto in Materiale giudiziario, a cura di Antonio Armano, appendice di ID., Maledizioni. Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi anzi domani, Torino, Aragno, 2013, pp. 265-266.

[8] Cassazione Sezione III, 20 giugno 1959, cit. ibidem, p. 257.

[9] Cfr. ARISTARCO, Guido, Nota introduttiva, in PIOVENE, Guido, NUVOLONE, Pietro, BERUTTI, Mario, et al., La porpora e il nero, Milano Edizioni di Cinema Nuovo, 1961, p. 12; CESARI, Maurizio, La censura in Italia oggi (1944-1980), Napoli, Liguori, 1982, p. 159.

[10] Cfr. GIORI, Mauro, Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. 1935-1962, Milano, Libraccio Editore, 2018, p. 259. Sull’evoluzione del rapporto tra cinema e pornografia nell’Italia del secondo Novecento e sulle reazioni da parte delle istituzioni, cfr. SUBINI, Tomaso, La via italiana alla pornografia. Cattolicesimo, sessualità e cinema, Firenze, Le Monnier, 2021.

[11] Cfr. FORGACS, David, How Exceptional were Culture-State Relations in Twentieth-Century Italy?, in BONSAVER, Guido, GORDON, Robert S.C. (eds.), Culture, Censorship and the State in Twentieth-Century Italy, Oxford, Legenda, 2005, p. 15.

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Bibliografia essenziale

Bibliografia essenziale

  • ARGENTIERI, Mino, La censura nel cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 1974.
  • ARMANO, Antonio, Maledizioni. Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi anzi Domani, Torino, Aragno, 2013.
  • BONSAVER, Guido, Censorship and Literature in Fascist Italy, Toronto, University of Toronto Press, 2007.
  • ID., Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Roma-Bari, Laterza, 2013.
  • BONSAVER, Guido, GORDON, Robert S.C. (a cura di), Culture, Censorship and the State in Twentieth-Century Italy, Oxford, Legenda, 2005.
  • BRANCATI, Vitaliano, Ritorno alla censura, in DONDERO, Marco (a cura di), Romanzi e saggi, Milano, Mondadori, 2003, pp. 1499-1567.
  • CESARI, Maurizio, La censura in Italia oggi (1944-1980), Napoli, Liguori, 1982.
  • DI STEFANO, Carlo, La censura teatrale in Italia (1600-1962), Bologna, Cappelli, 1964.
  • FERRARA, Patrizia, Censura teatrale e fascismo (1931-1944). La storia, l’archivio, l’inventario, Roma, Edizioni Mibact, 2004.
  • ID., «A proposito di censura sullo spettacolo in Italia (1861-2021)», in Le Carte e la Storia, 2/2022, pp. 89-106.
  • FESTA, Federica, Teatro proibito. In scena i tabù di una nazione, Spoleto, Editoria&Spettacolo, 2011.
  • FORGACS, David, GUNDLE, Stephen, Cultura di massa e società italiana. 1936-1954, Bologna, il Mulino, 2007.
  • FRAJESE, Vittorio, La censura in Italia. Dall’Inquisizione alla Polizia, Roma-Bari, Laterza, 2014.
  • GIORI, Mauro, Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. 1935-1962, Milano, Libraccio Editore, 2018.
  • PIOVENE, Guido, NUVOLONE, Pietro, BERUTTI, Mario, et al., La porpora e il nero, Milano Edizioni di Cinema Nuovo, 1961.
  • PROCINO, Maria, «La censura teatrale in Italia: dalla rivista alla prosa il racconto dei copioni conservati in archivio centrale dello stato (1944-1962)», in Nuovi Annali, 28, 2014, pp. 121-136.
  • SEDITA, Giovanni, «Giulio Andreotti e il neorealismo. De Sica, Rossellini, Visconti e la guerra fredda al cinema», in Nuova storia contemporanea, 16, 1/2012, pp. 51-70.
  • SUBINI, Tomaso, La via italiana alla pornografia. Cattolicesimo, sessualità e cinema, Firenze, Le Monnier, 2021.

Sitografia

Sitografia

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Galleria di immagini

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1. Caricatura di Mussolini realizzata da Gabriele Galantara sulla rivista satirica «L’Asino» (1924). Le riviste satiriche durante il periodo fascista furono sottoposte a una rigida censura o a un processo di fascistizzazione. «L’Asino» cessò le pubblicazioni nel 1925.






2. Un’altra caricatura di Gabriele Galantara per la rivista «L’Asino» (1924).






3. Una vignetta proveniente dal periodico «Il becco giallo» del 1925 relativa al delitto Matteotti. Il settimanale, durante il periodo fascista, fu sottoposto a una costante censura; proprio per questa ragione a partire dal 1924 il simbolo del «Il becco giallo» – un merlo a becco spalancato – uscì con il disegno di un merlo con il becco chiuso da un lucchetto.

Credits

  • Immagine 1: GALANTARA – Il morso dell’Asino – Universale Economica Feltrinelli 1980, on Wikipedia Commons (Public Domain).
  • Immagine 2: Agenda del Compagno, Edizioni Avanti!, 1977, on Wikipedia Commons (Public Domain).
  • Immagine 3: immagine tratta da “Il becco giallo, dinamico di opinione pubblica” di Oreste Del Buono e Lietta Tornabuoni, Feltrinelli, Milano, 1972 on Wikipedia Commons (Public Domain).

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