Numero 26 | Invio di contributi
scommessa democratica
della Chiesa cattolica:
cinquant’anni dalla
dichiarazione conciliare
Dignitatis humanæ
L’8 dicembre 1965, nella sessione di chiusura del Concilio Vaticano II, la gerarchia ecclesiastica presente in San Pietro spezzava una lancia in favore della democrazia, approvando la dichiarazione Dignitatis humanæ sul diritto civile alla libertà religiosa. Durante i lavori delle quattro sessioni conciliari, diversi ostacoli erano stati posti sul cammino che Giovanni XXIII aveva voluto aprire in questa direzione incaricando il Segretariato per l’Unità dei Cristiani la riflessione sul pluralismo religioso. Tre scuole teologiche si erano infatti affrontate sul terreno di una verità religiosa di cui la Chiesa cattolica sosteneva essere l’esclusiva depositaria: quella curiale (impermeabile e resistente a qualsiasi cambio che alterasse la superiorità della Chiesa cattolica sulle altre chiese cristiane, e la superiorità della religione cattolica sulle altre religioni monoteiste), quella francofona (la più avanzata perché disposta a giustificare biblicamente – sub luce revelationis – il concetto di libertà religiosa che la Chiesa era disposta ad accettare) e quella statunitense (la più pragmatica e, proprio per questo, capace di proporre quelle distinzioni necessarie a far convergere l’aula conciliare verso l’approvazione di un documento che poteva avere importanti ripercussioni politiche, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale).
I risvolti socio-politici che la dichiarazione conciliare sul diritto civile alla libertà religiosa poteva produrre, tanto in ambito nazionale quanto in quello internazionale, non si fecero attendere. In un mondo in cui i regimi democratici si stavano consolidando come la forma di organizzazione, politica e sociale, capace di garantire le libertà dell’uomo, il diritto civile alla libertà religiosa si convertiva nello spiraglio attraverso il quale la luce democratica poteva entrare in quei paesi retti ancora da regimi totalitari, fossero questi di sinistra o di destra. A questo proposito, emblematici sono tanto il caso della Spagna franchista quanto il caso dei paesi cattolici dell’orbita sovietica.
In Spagna, il Novecento si è caratterizzato per una quasi costante confessionalità dello Stato, ad eccezione del periodo della Seconda Repubblica. Ma ciò che forse va sottolineato è l’aderenza della legislazione statale in materia religiosa alla dottrina cattolica: totalmente divergente durante la tappa repubblicana, totalmente concorde con essa durante l’epoca della dittatura franchista. Il Concilio Vaticano II aprì una fase conflittuale di assestamento e ridefinizione delle relazioni Stato-Chiesa che – secondo i principi ella Costituzione del 1978 e degli Accordi concordatari del 1979 – riconosce una speciale attenzione alla religione cattolica in un regime di separazione e libertà religiosa. In questo caso, il diritto civile alla libertà religiosa venne usato non tanto per difendere il diritto dei cittadini spagnoli a professare liberamente la loro religione (dal momento che la cattolica era la religione maggioritaria di uno Stato che, fino al 1978, si professava essere confessionale), quanto piuttosto per tutelare la libertas Ecclesiæ da una certa tendenza statalista.
Nel caso dei paesi cattolici dell’allora sfera sovietica, il diritto civile alla libertà religiosa servì da veicolo alle libertà democratiche proibite dal regime comunista (la libertà di associazione e la libertà di stampa) e a difendere la libertà della gerarchia cattolica a diffondere il messaggio evangelico senza essere accusata d’opposizione politica al regime). Da questo punto di vista, la paziente azione diplomatica, che monsignor Casaroli condusse fin dagli inizi degli anni Sessanta, contribuì sicuramente all’indebolimento interno del sistema socialista sovietico. Non meno importante – per un riconoscimento internazionale dell’azione vaticana nel mondo – fu la politica ecumenica che Paolo VI promosse già negli anni Settanta e che Giovanni Paolo II sviluppò ulteriormente durante il suo pontificato.
L’obiettivo del numero monografico è quello di fare un bilancio sugli effetti che la dichiarazione conciliare sul diritto civile alla libertà religiosa ebbe nell’Europa della seconda metà del Novecento. In modo particolare si vuole mettere in evidenza il modo in cui la Dignitatis humanæ contribuì a combattere il totalitarismo sovietico e i residui di autoritarismo che ancora esistevano nell’Europa occidentale. Ampliando la prospettiva al punto di vista cattolico sull’ecumenismo, si aspira a definire anche il modo in cui la politica ecumenica del Vaticano contribuì allo stesso fine.
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