L’atelier de l’historien-ne: post #55
Per la rubrica L’atelier de l’historien-ne, questo mese proponiamo la traduzione del post «La Corse, d’une île “semi-ouverte” à “fermée”? (XVIIIe siècle)», pubblicato sul blog “Gouverner les îles”, blog della programma scientifico GOUVILES (École Française de Rome, Università degli Studi di Palermo, Université Toulouse Jean Jaurès).
La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.
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di Hugo Vermeren
Questo post[↩] si inserisce e approfondisce alcune tematiche trattate nel mio dottorato[↩], in cui descrivevo una società corsa al crocevia delle sovranità, o in altri termini, come alcuni strati sociali e categorie si siano trovati a dover scegliere tra aderire a un sistema di potere o un altro.
Nel 1729, quando la Repubblica di Genova amministrava congiuntamente l’isola e il regno di Corsica dal 1453 – grazie ad una prima convenzione con il Banco di San Giorgio e poi con un’altra, stipulata a metà del XVI secolo –, scoppiò una rivolta popolare che, rapidamente rivestita anche di una dimensione ideologica, innescò una serie di rivoluzioni. Nel 1755 Pasquale Paoli diede vita a uno Stato che mise in scacco le forze repubblicane e, di fronte all’impossibilità di riassorbire una crisi politica che destava i timori di uno cambiamento di potere, i Serenissimi Senati si accordarono con il re di Francia riguardo a un trasferimento di sovranità: dall’estate del 1768 i francesi ingaggiarono contro i corsi una guerra che si concluse nel maggio dell’anno successivo con la conquista e la caduta del governo paolista. Il 25 settembre 1770 i deputati corsi chiesero “l’incorporazione” dell’isola nella Corona.
Nell’ambito di un seminario dedicato alla ricerca negli spazi insulari e marittimi propongo una riflessione consacrata allo studio di una segmento cronologico specifico: quello che riguarda la seconda metà del XVIII secolo, quando l’amministrazione francese si interessò alla gestione del territorio insulare corso. Nonostante sia poco studiato, questo nodo politico è cruciale per poter esaminare una società che si colloca a un crocevia tra diverse sovranità (genovese, rivoluzionaria corsa e francese) e la competizione tra queste ultime sul territorio. La mia riflessione sarà incentrata in particolare sulle questioni marittime: per i francesi, la «cessione volontaria dei diritti di sovranità che [la Repubblica] possedeva sul Regno di Corsica» prevedeva ormai che gli abitanti dell’isola godessero dei «vantaggi […, e] della felicità […] d’appartenere» al re di Francia e, tra i privilegi, quello di rivendicare il diritto di battere bandiera bianca; è però difficile stabilire chi fossero, tra i navigatori locali, quelli interessati al cambiamento di sovranità. Gli ammiragliati di Ajaccio e Bastia avevano tuttavia bisogno di disporre di una definizione precisa, in modo da poter sapere chi fossero i «soggetti naturali corsi».
Questa problematica amministrativa – che, vedremo, avrà anche un’influenza sociale – era offuscata dalle borghesie cittadine, in particolare da quella marittima di Bastia, che desideravano escludere molti attori economici denunciandoli come “stranieri”. Questi casi non erano frutto di una dimensione ideologica, quanto della preoccupazione di assicurarsi il dominio di un settore economico. Tali gruppi nel corso del XVIII secolo sperimentano uno sviluppo e una consolidamento malgrado, e talvolta anche grazie, alle rivoluzioni. Ci troviamo dunque all’interno del campo d’analisi del governo insulare, ma non unilateralmente, perché si tratterà di esaminare quanto questo fosse scosso dall’azione di lobbying degli abitanti di Bastia, che speravano di influenzare la legislazione in loro favore. Se la Corsica era stata conquistata dalle armi, entrò però nella Corona tramite l’apparato legislativo. L’anno prima della caduta del Governo nazionale, tra il maggio 1786 e il maggio 1769, l’autorità francese promulgò quasi una trentina di editti mentre in seguito, annualmente, sarebbero stati meno della metà. Tutti cercavano di adeguarsi alle pratiche quotidiane locali in vista di un’integrazione al corpus francese che sarebbe però avvenuto solo con la Rivoluzione francese. Le autorità monarchiche scoprirono come si poteva gestire un’isola con caratteristiche che sembravano loro quanto meno sconcertanti. Gli ufficiali degli ammiragliati dichiararono che nei primi tempi in cui avevano «preso possesso della Corsica, non si era voluto stabilire per i padroni le stesse regole osservate nei porti francesi per non scoraggiare i locali con formalità sconosciute». Ci si meravigliava anche della mancanza di professionalizzazione degli uomini che, anche inesperti, si imbarcavano nella navigazione: «non ci sono regole stabilite per i navigatori che vogliono comandare navi, ci è stato riferito che chiunque voglia comandare ha la libertà di farlo senza alcuna formalità».
Oltre alle pratiche, la sorpresa riguardava anche l’organizzazione dello spazio e la strutturazione dei flussi insulari che non passavano dal traffico stradale ma dal litorale, attraverso il “cabotaggio”. La Repubblica di Genova non gestiva la Corsica come un’isola, ma come un suo terzo fiume; unica differenza: l’assenza di una flotta fissa. Escludendo le alte montagne, per lo più prive di insediamenti umani permanenti, nella sua geomorfologia la Corsica è simile alla Liguria e si sviluppa lungo una successione di valli modellate da corsi d’acqua. Spesso, alla loro foce, si trova una delle cosiddette “torri genovesi”, che risalgono principalmente alla fine del X secolo e sono, in alcuni casi, le opere del Banco di San Giorgio, del Magistrato delle Seminiere e delle fabriche delli torri e poi del Magistrato di Corsica. Se originariamente lo scopo di questi edifici era la difesa contro gli infedeli, il crollo del fenomeno alla fine del XV secolo spinse ad assumere una nuova funzione commerciale. Alcune saranno persino privatizzate o affittate da privati e da istituzioni religiose. Queste interfacce marittime rappresentavano delle soglie tra terra e mare, dove le navi si fermavano per recuperare le risorse messe a disposizione degli abitanti (acqua, merci agricole e artigianali); è proprio in questi luoghi che si osservano i più grandi successi economici: è vicino alla torre della Padulella a Moriani che gli investitori De Battisti sviluppavano le loro imprese, vale a dire zone agricole (grano, vigneti, castagni, ecc.), artigianali (vino, olio) e soprattutto servizi dedicati ai navigatori (magazzini, negozi, locande). Il governatore Ambrogio Imperiale scriverà che la ricchezza e il traffico erano tali che sembrava di essere in un «secondo Capo corso»!
Le mobilità passavano quindi di volta in volta attraverso piccole imbarcazioni via quello che i francesi designavano come il “piccolo cabotaggio”; se questo fenomeno esisteva anche altrove, quello locale scontentava gli ufficiali degli Ammiragliati, disposti a tollerarlo solo provvisoriamente: «Il bene generale […] scrive uno di loro nel 1772, era sembrato esigere che si tollerasse la navigazione che i padroni del piccolo cabotaggio intraprendevano […] per le necessità e gli approvvigionamenti del paese». A differenza delle repubbliche genovese e corsa che non avevano mai cercato di alterare l’ordine litoraneo dei flussi, i francesi intrapresero una gestione territoriale attraverso assi stradali che, seppur non inesistenti, non risultavano certo fondamentali: sia a causa dei tempi di viaggio molto più lunghi per le merci pesanti che per le insicurezze legati ai banditismi.
L’amministrazione monarchica mise dei muli sulle strade principali. Dall’aprile 1769 diversi tartani carichi di bestie da soma lasciarono Tolone per Bastia e Saint-Florent; per quelli già presenti sull’isola la loro disponibilità era regolata da una tariffa giornaliera. La Francia non completerà la costruzione del grande asse Bastia-Ajaccio fino all’inizio del XIX secolo, impiegando deportati di Haiti e della Guadalupe. Sul medio termine, una tale politica condusse alla progressiva scomparsa del “piccolo cabotaggio” e, di fatto, all’isolamento di valli e regioni che fino ad allora partecipavano alla “strada” litoranea; da allora si rafforzò anche l’etnotipo romantico di una Corsica montana che vede il mare solo da lontano.
In Corsica, dunque, era il flusso a distribuire le ricchezze e si deve prendere atto del fatto che i risultati economici dei centri marittimi era disgiunto dalla loro urbanizzazione. Verso il 1630, Bastia, capitale di 5.000 abitanti, era solo il decimo porto dell’isola, abbondantemente superato da scali non urbani o poco urbanizzati. Quasi l’80% del traffico passava per il Capo corso. Algajola, piccolo borgo fortificato della Balagna era ottavo, mentre Ajaccio quarto; già segno, questo, di un traffico strutturato sul litorale storico dell’isola, quello occidentale. Già in epoca genovese questo ordine era fonte di stupore, al punto che nel 1652 la Repubblica decise di spostare la capitale verso Calvi, diciannovesimo porto, presidio conosciuto e soprattutto meno accessibile ai locali di quanto non lo fosse Bastia. Nel 1659 il Magistrato di Corsica fece marcia indietro e decise di approntare un vero e proprio porto; il cantiere si protrasse almeno dal 1671 al 1701. Fu così che la città riuscì a cogliere buona parte del ruolo di distributore che aveva Capo corso e, nel XVIII secolo, si allineò al modello delle città-porto continentali. Nell’estate del 1734 il 44% dei prodotti che entravano nel porto provenivano da Genova mentre il 33% da Livorno (seguita da Napoli al 9%, Sardegna al 5% e i “fiumi francesi” ad un altro 5%). Come testimoniano i registri di ancoraggio del 1742, ormai coesistevano due assi commerciali: 30% delle navi proveniva dall’asse storico, ovvero da Capo corso, altrettante da Capraia. Quest’ultima, dipendente dal Regno di Corsica, conobbe un forte arricchimento in concomitanza all’emancipazione internazionale della Repubblica nel XV secolo, al punto che la sua popolazione in quasi un secolo quintuplicò, da 400 a circa 2.000 persone. Tutto questo favorì l’insediamento in Corsica dei cittadini del Dominio, in particolar modo, nei presidi come Bastia.
In risposta alle rivoluzioni e all’arrivo di nuovi attori sul territorio, le borghesie marittime locali proseguirono i loro sforzi di organizzazione e strutturazione. L’università dei pescatori di Bastia apparteneva a una delle quattro attive nella città (al fianco di quelle degli acconciatori, dei calzolari e dei marinai) ed era di gran lunga la più dinamica. Questo «piccolo mondo chiuso dove i legami famigliari sono stretti» veniva unito dalle alleanze matrimoniali e raggruppava una sessantina di individui, dal piccolo pescatore alle grandi famiglie. Dato che disponeva di una biblioteca, l’università possedeva importanti mezzi finanziari ed era importante, nella chiesa del porto, San Giovanni Battista. I pescatori sono forse stati tra i primi “presidianti”, gli abitanti dei presidi, a doversi confrontare con l’affermazione di uno Stato nazionale sotto l’egida di Pasquale Paoli che, alla luce di una strategia che io definisco “Stato alternativo”, si proponeva ai pescatori come soluzione al problema che esso stesso causava loro. Questo fenomeno è visibile proprio nel sud di Bastia, dove l’attività si concentrava nello stagno di Chiurlino. I paesani, termine che designa letteralmente gli uomini di paese (nonostante sia difficile, distinguere il bandito dal patriota), si appostavano sugli argini e sparavano sulle barche. Diverse petizioni dei pescatori e dell’università dei pescatori parlano di un’attività che, se non impedita, era quantomeno fortemente ostacolata. Le autorità genovesi cercavano faticosamente di limitare questo problema rafforzando un fortino presente sull’isolotto di Ischia Nova e costruendo un ponte che reggeva un cannone. Si organizzavano anche sessioni di tiro cieco sui cespugli.
I dintorni di Bastia, XVIII secolo (Fonte: Biblioteca patrimoniale di Bastia).
Isolotto e fortino d’Ischia Nova sullo stagno di Chiurlino,1760-1761 circa (Fonte: Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, 2133).
Più a sud, presso gli stagni di Diana e di Urbino, diversi documenti attestano la strategia di Paoli volta a fare affidamento su uomini cardine: a metà novembre 1759, Paoli cercò di ottenere il sostegno di un certo Paolo Girolamo Brignole, uomo un tempo residente a Bastia ma allora nel Campoloro (dove sarà ancora nel 1769). Il Governo nazionale lo favorirà concedendogli vantaggi economici: prima l’appalto del sale, poi l’ottenimento di una ferriera lungo il Fiumalto. Brignole partecipò anche a una Società del Sale nel 1766 e, nel complesso, fu uno degli investitori più vicini al Governo. Ma perché Paoli si rivolse a lui? Brignole, nato intorno al 1705, aveva fatto carriera in ambito militare: sergente a Bastia nel 1740 poi priore della confraternita della Santa Croce – il cui l’oratorio si trova nella cittadella –, circa nello stesso periodo.
Dettaglio di una carta che rappresenta la cittadella di Bastia, XVIII secolo (Fonte: Archivio Storico del Comune di Genova, Molfino, [Francesco Maria Accinelli] Storia veridica della Corsica dal principio… sino al presente…).
Isolotto e fortino d’Ischia Nova sullo stagno di Chiurlino,1760-1761 circa (Fonte: Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, 2133).
L’oratorio, essendo nel cuore dello spazio politico-religioso, si inseriva in una geografia urbana del potere; il tutto si trovava infatti al centro della cittadella che i rivoluzionari avevano più volte assaltato. La costruzione dell’edificio iniziò il 12 gennaio 1542 su un terreno appartenente alla basilica di San Giovanni in Laterano. Intorno al 1600 la struttura fu distrutta e realizzata nuovamente con l’attuale stile rococò.
Isolotto e fortino d’Ischia Nova sullo stagno di Chiurlino,1760-1761 circa (Fonte: Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, 2133).
La Santa Croce sarebbe stata fondata dopo la scoperta, da parte dei pescatori, di un Cristo in legno nero e appartiene al paesaggio culturale marittimo locale. Dato che accoglieva diversi borghesi molto attivi occupava un ruolo centrale nella socialità di Bastia tanto che, il 18 maggio 1768, Pasquale Paoli versò 90 lire alla sua confraternita oltre che a quella della Concezione e di Saint-Roch, proprio come aveva fatto alcuni anni prima “l’irregolare” Serafino-Maria Rouilt marchese di Cursay. Entrambi tentarono di influenzare gli ambienti borghesi con il denaro. Il 26 agosto dello stesso anno il marchese di Chauvelin sbarcò sull’isola e annunciò i termini del trattato di Versailles, che implicava il trasferimento della sovranità, intimando agli uomini di mare di recarsi presso le autorità per dichiararsi. A partire dal 28 maggio – in seguito alla diffusione del trattato di Versailles – molti patroni bastiesi abbandonarono la bandiera genovese o quella imperiale per quella francese, come Bartolomeo Bonavia, Giuseppe Santelli o i fratelli Cecconi. Il rapido avvicinamento della borghesia di Bastia alla Francia diede uno slancio ai sostenitori del re che, in diversi sensi, determinò quello degli ambienti economici a loro legati, come il notaio Giuseppe Maria Massesi. Durante gli anni Quaranta del Settecento, questi accolse nel suo studio le università marittime e dichiarò la sua adesione ai patrioti. Lo stesso schema valeva per i piccoli finanzieri che erano gli Arena in Balagne, che si rivolsero ai francesi molto presto. Tutto sommato, la pragmatica decisione degli ambienti economicamente e politicamente attivi determinò il passaggio delle principali forze della società alla monarchia francese. Una volta terminata la conquista, l’università dei pescatori di Bastia tentò di rafforzare la sua posizione disponendo, per gli uomini di mare originari dei fiumi, di risorse che visto il loro numero e la mancanza di organizzazione si rivelarono essere importanti. Dal 1773 l’Università portò all’attenzione dell’ammiragliato il fatto che “pescatori stranieri” venissero a praticare la loro attività sul litorale e che disponessero nei confronti dei “poveri pescatori locali” di un vantaggio competitivo relativo all’utilizzo di materiali vietati come la rete tartarone. Se l’origine degli “stranieri” non viene menzionata, ci sono però altri documenti che indicano che chi veniva preso di mira erano i capraiesi. Le amministrazioni marittime si trovarono poi a doversi confrontare con la problematica di dover definire cosa fosse un “pescatore straniero” e poterlo distinguere da chi invece gli ammiragliati consideravano i corsi “veri”.
Spostiamoci dal caso dei pescatori a quello dei navigatori. Gli individui con “interessi” nell’ambiente marittimo furono tentati di chiedere, fin dalla fine del maggio 1768, l’autorizzazione a sfoggiare la bandiera monarchica che, nel Mediterraneo, era particolarmente apprezzata per i legami con i turchi. I “nazionali genovesi” d’altronde erano, secondo il parere di diversi consoli della Serenissima Repubblica, imbroglioni che cambiavano bandiera a seconda dei porti in cui si presentavano. Numerosi erano stati i casi di “frode” presentati a tutte le autorità portuali.
In Corsica, gli ammiragliati si trovarono a dover stabilire le condizioni materiali che permettevano di definire il vero “corso”: innanzitutto una questione di nascita, altrimenti un matrimonio con una ragazza corsa (o francese) e l’acquisto di un bene immobile. Si era poi aggiunto un termine temporale: almeno sei anni. Restava da definire cosa si potesse considerare un’unione coniugale “solida” e non interessata. Col passare degli anni le condizioni si accumularono al punto da diventare un groviglio di requisiti che per lo più non facevano altro che confondere. Tanto più che erano parecchie le popolazioni esterne all’isola che partecipavano alla sua economia marittima: ad esempio, i membri di una colonia greca accolti a Paomia nel 1676 e poi ad Ajaccio vennero considerati “corsi” solo se nati dopo il 21 ottobre 1727. Il caso dei liguri è complesso: i fratelli Giovanni e Pasquale Reggio erano entrambi sposati e possedevano beni sull’isola ma i loro matrimoni erano abbastanza solidi? L’ufficiale dell’ammiragliato si trovò a descrivere al Ministero ogni sorta di piccolo dettaglio che potesse incidere sulla decisione; esistono anche altri casi problematici, come quelli di chi si era sposato in Corsica con donne originarie della Toscana, di Roma o di Napoli.
In questa profusione di casi bisogna dire che gli agenti francesi si trovarono invischiati nelle loro stesse contraddizioni: nel quadro di una politica globale che si chiama “Rigenerazione” della Corsica, i dati marittimi costituiscono un indicatore contabile che suggerisce l’aumento del commercio che ci si attendeva e si sperava. Allo stesso tempo, le amministrazioni volevano dimostrare di essere anche un’autorità da temere e diversi casi sfociarono in sanzioni esagerate che non avevano altro senso che ricordarlo. Così, quando il patrono Stefano Duce chiese la bandiera gli si imputò un sospetto abuso che lo obbligò a scontare una pena di 2.000 lire, poi ridotta a 200.
Esempio di una pagina del registro dell’Ammiragliato di Bastia. (Fonte: Archivi della Collettività di Corsica, Bastia, 19P1/1).
Come si può notare, aiutando gli Ammiragliati a trovare “stranieri” dappertutto, le città costiere si privarono progressivamente di una parte delle loro forze vive marittime originarie della Liguria e della Toscana e, così facendo, la società perse una parte delle popolazioni con una forte tradizione marittima. Aggiungendosi alla politica terrestre dell’amministrazione francese aprì la strada ad un impoverimento dei territori che corrispondevano ormai solo all’entroterra di modeste città portuali. Resta il fatto che anche se l’ambiente marittimo di Bastia si rinchiuse sempre più in se stesso, conobbe comunque un aumento delle sue risorse, come il numero degli equipaggi formati a Bastia testimonia: dal 1771 al 1779 si ridusse da 190 a 120 navi, ma poi risalì a 180 alla vigilia della Rivoluzione francese. Si assistette anche ad una concentrazione dei capitali.
Per concludere, la nostra riflessione apporta elementi quanto alle possibili perturbazioni di una governance quando questa non è accompagnata dalla élite locali o, almeno, quando queste ultime seguono solo i propri interessi. Infine, se l’ultimo terzo del XVIII secolo non è stato visto come il tempo di grandi mutamenti della società locale, la mia riflessione invita a rivedere la nostra concezione dell’integrazione della Corsica e dei corsi nella geografia ligure-toscana durante il periodo moderno. In altre parole, possiamo chiederci se, con i primordi della gestione francese la Corsica non abbia innescato, per riprendere la tipologia di Michel Fontenay, la transizione da un’isola “semi-aperta” a una “chiusa”. La domanda è posta, la ricerca ancora da farsi.
- Il testo è quello, leggermente rimaneggiato, presentato durante un seminario di dottorato del 14-17 febbraio 2023 presso l’École française di Roma; mi preme ringraziare chi ha organizzato l’evento per la qualità dello stesso e chi ha partecipato per i numerosi scambi.
- MICELI, Erick, La Corse entre trois souverainetés, 1750-1770. Dynamiques politiques, intellectuelles et ambitions personnelles durant le “moment paolien” des crises révolutionnaires corses, Tesi di dottorato in storia moderna, Università di Corsica – Università degli studi di Genova, 2022.
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