L’atelier de l’historien-ne: post #57
Per la rubrica L’atelier de l’historien-ne, questo mese proponiamo la traduzione del post «Comprendre le monde d’après – esquisse de prospective globale», pubblicato sul blog “Histoire Globale”, curato da Laurent Testot.
La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.
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di Laurent Testot
Da quindici anni a questa parte mi sto occupando di far conoscere in Francia la storia globale, un metodo di analisi storica su grande scala. In particolare, a seguito della grande incertezza che la pandemia di Covid-19 ha disseminato nel mondo, questa disciplina si rivela preziosa. Non fosse altro perché, abituata a servirsi di diversi strumenti multidisciplinari, è più preparata di altre nell’analisi di eventi imprevisti che sconvolgono i migliori scenari, come l’irruzione dei cigni neri, di cui il Covid-19 è l’esempio per eccellenza.
La Global History è una disciplina sviluppata da storici nordamericani, tra di essi figurano i rimpianti William H. McNeill e Alfred Crosby Jr. Io la definisco[↩] come un metodo che permette di esplorare l’ambito della storia mondiale – che viene definita come l’insieme dei passati dell’umanità, dal suo debutto in Africa tre milioni d’anni fa alla globalizzazione contemporanea[↩]La storia globale è lo strumento che permette di produrre questa storia mondiale. Uno strumento vivente, animato da filamenti di DNA:
1) La storia globale è transdisciplinare. Associa in parti uguali altre discipline delle scienze umane, come economia, demografia, archeologia, geografia, antropologia, filosofia, scienze sociali, biologia evoluzionista…
2) La storia globale analizza il passato sotto una prospettiva di lunga durata.
3) La storia globale fa riferimento ad uno spazio allargato.
4) La storia globale gioca sulle scale, sia temporali che spaziali. Restituisce un racconto che apre grandi finestre sul passato del genere umano, per esempio mettendo a fuoco un aneddoto biografico prima di aprirsi alle implicazioni globali dell’evento. La facilità narrativa che ne deriva non è che l’ultimo dei suoi punti di forza didattici.
Come applicare questo metodo al nostro prossimo futuro? Prima di mettere in discussione le nostre certezze grazie alle scienze umane, cominciamo col delineare ciò che sappiamo con quasi assoluta precisione dello stato fisico del mondo. Negli ultimi anni, le riviste scientifiche hanno pubblicato innumerevoli articoli[↩] e concordano su un punto: il futuro non si presenta molto roseo. Il clima, determinato dalle nostre emissioni passate e presenti di gas a effetto serra, supererà la soglia di 1,5°C (rispetto alle temperature misurate alla fine del XIX secolo) intorno al 2030 e quella di 2°C nel decennio del 2040. È un disastro e dovremo affrontarne le conseguenze – e non peggiorare ulteriormente la situazione – dimezzando le nostre emissioni di gas entro il 2030 e riducendole dei tre quarti entro il 2050. In caso contrario, dovremo gestire un mondo la cui abitabilità sarà sempre minore e che non potrà accogliere i circa 10 miliardi di persone previste sulla Terra nella seconda metà del XXI secolo in condizioni di vita decenti.
Lo stesso vale per gli ecosistemi: collasso planetario, colossale riduzione della fauna (in sostanza, più della metà degli animali selvatici, dall’elefante allo scarafaggio, passando per l’aringa scomparsi dalla faccia della terra e dalle profondità degli oceani in meno di mezzo secolo!), un massiccio regresso delle superfici boschive e delle zone umide… sono fenomeni senza precedenti, che mettono in pericolo gli equilibri alla base della vita sulla Terra.
Si aggiungano anche i timori sulla disponibilità di petrolio e di terre rare, che prevedibilmente nel prossimo futuro scarseggeranno – queste risorse attualmente condizionano le nostre capacità, non solo di affrontare i problemi, ma di tenere l’umanità in vita[↩]. Bisogna ricordare che oggi, per produrre una caloria alimentare nell’agricoltura industriale, spendiamo in media per del pane 10 calorie di idrocarburi (necessari alla fabbricazione di fertilizzanti azotati e di prodotti per trattamenti sanitari, trasporti, coltivazione, ecc…)? Noi mangiamo letteralmente il petrolio, e le riserve non sono infinite.
Confrontandomi da quindici anni con la storia ambientale con l’ossessivo bisogno di sapere come l’umanità abbia affrontato le crisi del passato, ho individuato un postulato fondamentale: ciò che è possibile sarà fatto dal momento in cui lo si rende formulabile. Un eccesso di tecnica, reso possibile da convinzioni e società articolate intorno ad esse, ha portato alla situazione attuale. E i problemi che derivano da questa situazione per ora sono affrontati sempre nello stesso modo: «li risolveremo», ci attiveremo per dissolverli con la tecnologia. Questo comporterà programmi di geoingegneria (per cercare di limitare gli effetti del riscaldamento globale) e forzature genetiche (per cercare, in modo irrisorio, di salvare gli ecosistemi) mentre noi continueremo a percorrere vicoli ciechi come l’utilizzo di combustibili fossili (con una prospettiva di riscaldamento globale sempre più distruttiva) e la diffusione di pesticidi e altre sostanze chimiche (con il risultato di aggravare ulteriormente il collasso degli ecosistemi).
Faccio una contro-ipotesi: se cambiassimo le priorità modificando le nostre convinzioni forse potremmo deviare da questa traiettoria entropica.
Il Covid-19 insegna diverse cose:
1) Innanzitutto, il virus è prova dei danni alla biodiversità: deriva, come la maggior parte delle pandemie precedenti, da uno stress ambientale legato all’espansione umana nell’ambiente naturale.
Riassunto in una semplice equazione: massiccia urbanizzazione dell’Asia orientale + sempre più rilevante consumo di carne = effetto boomerang. Mostra l’adattabilità del vivente (suppongo che un virus sia vivo, anche se è solo un frammento di DNA): per sopravvivere ha dovuto trovare un ospite che non fosse in via d’estinzione. Da un punto di vista evolutivo i patogeni ancora nascosti in natura hanno tutto da perdere a rimanere nel loro ambiente di origine in via di sparizione, mentre tutto da guadagnare nell’infestare uomo, piante e animali. Non si tratta di attribuire loro una volontà, ma solo di analizzare le conseguenze della scienza che l’evoluzione rappresenta: solo una piccola parte dei patogeni messi in pericolo di estinzione dai nostri comportamenti si adattano efficacemente al nuovo ambiente, la soluzione più efficiente consiste nell’infettarci. Noi facilitiamo loro il compito, prima di tutto permettendo il moltiplicarsi di focolai di antibioresistività e soprattutto semplificando il vivente, lasciando moltiplicarsi solo ceppi di bestiame, cereali o altro senza alcuna diversità genetica, altamente vulnerabili ad un’infezione.
2) Il Covid-19 mostra l’infinita complessità e vulnerabilità della nostra civiltà. Sono bastati pochi scambi biologici in un mercato cinese, in una città di cui quasi tutti ignoravano il nome, per costringere in sei mesi 4 miliardi di persone a vivere rinchiuse nelle loro case – quando era possibile – e per vedere gli indici della borsa perdere un terzo del loro volume in due mesi. Mostra anche che le scelte politiche possono influire su questa vulnerabilità: muovendo il denaro le banche centrali sono riuscite a rigonfiare i mercati finanziari, quando l’incertezza in cui si trovavano avrebbe dovuto portarli al crollo.
3) Il Covid-19 mostra la densità delle connessioni economiche: se la peste del XIV secolo per circolare dalla Cina alla Francia ci ha messo un decennio, oggi ci sono voluti pochi mesi. E le frontiere sono cruciali nella sua espansione.
4) Esacerba le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi stessi (scuola, accesso alle cure, ambiente in cui vivere…), un classico della storia delle epidemie: più si è poveri più si è vulnerabili agli imprevisti.
5) Spinge ad abdicare alla libertà in nome della sicurezza collettiva.
Riassumendo, il Covid-19 rappresenta una radiografia espressa delle debolezze della nostra civiltà mondializzata: la Cina ha a lungo continuato a nascondere informazioni per porre le sue pedine nel gioco del soft power; gli Stati Uniti sono sempre meno incisivi sulla scena internazionale accelerando un cambiamento geopolitico a favore dell’Asia; gli Stati Uniti, il Brasile, l’India e altre entità statali sono state a lungo in balia delle incoerenze di governi populisti; la censura regna più che mai in Iran ed Egitto, ma anche in Cina e, più insidiosamente, altrove, sempre all’interno di formule culturalmente accettate; il rigore dogmatico del neoliberismo mostra i suoi limiti, costringendo a un ritorno dello Stato in materia di sicurezza, economia e sanità; i dannati di questo mondo (in Africa, Asia del Sud e nei paesi in guerra…) restano i più colpiti, nell’indifferenza generale.
Tra il rosso e il verde
Una volta ricordato che l’incertezza è stata assoluta, perché la situazione era inedita, sottolineiamo un altro elemento fondamentale, che vale per i limiti sopra menzionali come per le previsioni sul seguito degli eventi. Le scienze esatte pongono dei confini che consentono di costruire modelli, quadri semplificatori e concettuali che permettono al pensiero di strutturarsi. Ad esempio, se si inviano nell’atmosfera così tanti gas serra in un lasso di tempo determinato riscalderemo il pianeta di tante frazioni di gradi °C.
Ma – ahimè! –, appena formulata l’equazione perde il suo significato, perché le scienze umane si sono già messe in moto e hanno cambiato le prospettive future. La scienza politica, l’economia, la sociologia… giocano coi parametri, li alterano, cambiano le basi su cui fare le previsioni. In altre parole, il mondo previsionale è quello di un orizzonte fisicamente stabilito, ma offuscato dalle decisioni umane. Per prenderle in considerazione bisogna sì, considerare il modello fatto dalle scienze esatte, ma poi applicarvi anche quello in cui le scienze umane sono coinvolte, per calibrare le nostre reazioni che modificheranno il quadro complessivo. Questo vale per il clima come per il petrolio. Per esempio, ricorrendo al petrolio in modo massiccio, gli Stati Uniti hanno spostato nel tempo un limite fisico, quello del peak oil, della disponibilità di idrocarburi a basso costo, dal 2006 al 2025. Hanno anche trasformato un picco in un plateau.
Lo stesso vale per il coronavirus. Da un punto di vista strettamente biologico nei nostri paesi sviluppati avrebbe potuto essere ancora più letale, ma le società si sono organizzate per limitare il suo impatto e il picco epidemiologico è diventato un plateau che consentiva alle infrastrutture sanitarie, spesso indebolite da anni di austerità finanziaria, di resistere allo shock.
Riassumiamo quindi ciò che ha reso difficile qualsiasi previsione sul coronavirus. Per le scienze esatte: la progressione non era modellizzabile per mancanza di dati, si stava affrontando un agente patogeno del tutto nuovo. Per le scienze umane: le misure di contenimento planetario sono state inedite e hanno sconvolto quotidianamente le proiezioni epidemiologiche.
Una volta prese le precauzioni preliminari quali potevano essere le traiettorie plausibili?
Su scala mondiale si delineavano due scenari in pochi anni e con tutte le incertezze del caso, dal più plausibile al meno probabile, il futuro si sarebbe dovuto situare tra questi due poli.
1) scenario rosso, Business as usual: in qualche tempo il virus sarebbe diventato rintracciabile (con test che permettono di identificare rapidamente se si è stati colpiti) e “vaccinabile”, quindi controllabile, in modo da autorizzare almeno i paesi sviluppati a togliere le restrizioni di spostamento. L’economia ne sarebbe uscita fortemente colpita: gli indici azionari fortemente contratti avrebbero beneficiato di emissioni generose dalle banche centrali. Il prezzo del petrolio, rimasto minimo, sarebbe stato urgentemente svincolato e i prezzi delle energie rinnovabili sarebbero cresciuti.
Primo effetto, quello del richiamo d’aria: il rilancio a tutti i costi, anche a costo di emissioni massive. Questa la scelta dei leader di tutto il mondo. La Cina, l’India e più in generale l’Asia, l’Africa e l’America Latina hanno ancora un potenziale di crescita di almeno un decennio. La classe media mondiale avrebbe continuato a crescere (ricordo che alla fine del 2019 eravamo 3 miliardi in questo mondo a risparmiare, tre volte più di venti anni fa, e che l’OCSE prevedeva 4 miliardi entro il 2030). In breve, il capitalismo si sarebbe ripreso da questa febbre passeggera. Strategia dello shock esposta da Naomi Klein: ci sono state vittime, il capitalismo speculativo rimbalzando sul disastro ha continuato a prosperare; la felicità è prevista per domani, se metti “correttamente” i tuoi soldi in un futuro desiderabile – città nuove, energie verde e fiumi, presto ottimizzazione energetica, chi può saperlo?
Quanto al Mondo? Ripartenza verso la sinistra traiettoria ben nota: raggiunti gli 1,5°C entro il 2030 dopo un decennio di degradazioni oggettive delle condizioni di vita sulla Terra. È probabile che solo allora gli Stati e le opinioni pubbliche capiscano che sarebbe un suicidio continuare e nel frattempo coloro che potevano avranno aumentato i mezzi per controllare la popolazione grazie all’intelligenza artificiale e alle reti sociali come ausiliari degli apparati di sicurezza degli Stati. Lo stato di emergenza da Covid-19 da temporaneo diventerà la norma. Sarà comunque troppo tardi per evitare i 2°C entro il 2040, il che giustificherà tentativi su larga scala di tenere il clima sotto controllo: geoingegneria e forzatura energetica per permettere a una porzione più o meno importante di umanità di sopravvivere. Inutile spiegare nel dettaglio (se non per farne un racconto distopico e repulsivo). Questo futuro è sfortunatamente il più probabile, perché viaggia sulle rotaie dell’inerzia collettiva. In questo orizzonte, tutti persistono nel loro essere, inclusa la persona che sta leggendo proprio adesso, che domani si ritroverà in un domani forse un po’ degradato, con la prospettiva di un futuro peggiore…
2) Scenario verde, gli umani mantengono il controllo. Inizierebbe da domattina. Gli epidemiologi che hanno coadiuvato gli Stati per consentire loro di far fronte alle conseguenze della loro imprevidenza nei confronti del virus, verrebbero sostenuti da climatologi ed ecologisti. Concorderebbero sul fatto che il sistema attuale è mortifero per il pianeta e dei gruppi transdisciplinari (facendo collaborare senza gerarchie ricercatori e ricercatrici di varie discipline) convincerebbero la maggioranza di Stati, organizzazioni transnazionali, ONG e opinioni pubbliche della fondatezza di alcune misure: dall’applicazione del principio per cui chi inquina paga per rendere l’agricoltura industriale meno interessante dell’agroecologia, al superamento dei combustibili fossili, alla creazione di un reddito di base universale…
Tutti gli elementi sarebbero stati ampiamente sperimentati e discussi su scala locale, e sarebbero oggetto di innumerevoli studi. Rimarrebbe, però, che queste soluzioni sono spesso incentrate su una scala troppo ridotta per fare sistema, soprattutto quando questo dovrebbe essere planetario. Per attuare un programma davvero globale, occorrerebbe un cambio di mentalità, che convinca la maggior parte dell’umanità che l’economia ultraliberale sta portando il mondo nel baratro.
I punti deboli immediati: nel diritto internazionale, implicherebbe che l’economia venisse superata dall’ecologia; nelle convinzioni, che si ammetta che il consumo non fa la felicità (la parte più difficile) e che venga riabilitata l’empatia sulla competizione. Deriverebbe da qui un cambio di pensiero riferito al rispetto per gli animali, comportando una riduzione nel consumo di carne che permetterebbe la rinascita di ampie parti degli ecosistemi terrestri, un sostegno verso i governi dei paesi più poveri per servizi ecosistemici che proteggano gli ambienti invece di distruggerli (la foresta tropicale in Brasile, in Africa, in Indonesia…, il permafrost in Siberia…), fino a raggiungere un punto di equilibrio dinamico che preservi il poco che non è stato distrutto e lo porti a prosperare. 50% natura selvaggia, 50% civilizzazione, il progetto half-Earth delineato da Edward O. Wilson e altri sarebbe già possibile in termini di racconto: 2030, 30% dei territori protetti (è già nei progetti dell’ONU, è però opportuno dare spessore alla nozione di “territorio protetto” perché vista dal nostro governo [francese, NdT] qualifica un luogo in cui si cacciano specie protette di uccelli ma che, salvato dal turismo, non prevede sentieri segnalati), 40% nel 2040 e per il 2050…
Il futuro per come posso immaginarlo in quanto essere umano limitato si trova tra questi due poli, il rosso del business as usual e il verde del mantenere il controllo, con ancora moltissimi punti di incertezza. So perfettamente che lo scenario verde va contro il nostro inconscio, oggi, in economia e per contaminazione in tutte le proiezioni programmatiche del nostro futuro, creare valore significa sottrarre risorse naturali e quindi accelerare l’entropia. È questo il nodo che dovrà essere tagliato se vogliamo che un’umanità degna sopravviva.
- Per un approfondimento sugli approcci metodologici della storia globale rimando a: TESTOT, Laurent (dir.), L’Histoire globale. Un nouveau regard sur le Monde, Auxerre, Sciences Humaines Éditions, 2008, riedito nel 2015.
- Per un approfondimento di questa storia sotto una prospettiva ambientale fare riferimento a TESTOT, Laurent, Cataclysmes. Une histoire environnementale de l’humanité, Paris, Payot, 2017, riedito nel 2018.
- Per un riassunto di questi studi è utile il lavoro prodotto da WALLENHORST, Nathanaël, La Vérité sur l’Anthropocène, Paris, Le Pommier/Humensis, 2020.
- Per farsi un’idea, fare riferimento a: AILLET, Laurent, TESTOT, Laurent (dir.), Collapsus. Changer ou disparaître ? Le vrai bilan sur notre planète, Paris, Albin Michel, 2020.
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