L’atelier de l’historien-ne: post #48
Per la nuova rubrica L’atelier de l’historien-ne, questo mese proponiamo la traduzione del post «Enseigner en féministe», pubblicato sul blog Acquis de conscience, curato da di Caroline Muller.
La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.
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di Caroline Muller
Dopo essere stato gradualmente rosicchiato dalle giornate di mobilitazione nazionale contro la riforma delle pensioni e contro il progetto di legge di programmazione pluriennale della ricerca (LPPR)[↩], il semestre di lezioni ha visto il suo termine con la brutta interruzione a causa di un virus mondiale.
In queste condizioni non ho potuto portare a termine l’esperimento pedagogico che avevo cominciato con la mia classe del secondo anno e ieri sera rimuginavo sulla mia frustrazione, sconsolata per i cinque mesi senza lezioni che stavano per arrivare. Eccomi, quindi, a fare una sorta di bilancio dell’anno scolastico, in particolare per quello che riguarda ciò su cui mi ero volontariamente concentrata: l’attenzioni ai rapporti di genere all’interno della mia aula. Propongo oggi alcune delle strategie che cerco di utilizzare nella mia pratica pedagogica per evitare di riprodurre delle inuguaglianze di genere: che cos’è una didattica femminista?
Nonostante uno dei miei ambiti di specializzazione sia la storia delle donne e del genere, non ho mai partecipato a nessun tipo di formazione particolare in pedagogia femminista e i corsi di cui vorrei parlarvi non sono né luoghi di “formazione femminista” in quanto tali, né seminari o corsi di studi di genere (di cui comunque mi occupo al terzo anno). Ciò che mi interessava quest’anno era analizzare un corso “classico” (come potrebbe essere quello di storia politica dell’Europa, ad esempio) per capire cosa si potesse fare per riflettere di più sulle questioni di genere in un contesto non esplicitamente connesso a tali contenuti.
Benché io sia femminista da molti anni non vivo fuori dal mondo e io stessa ho diversi pregiudizi e riflessi condizionati, più o meno consapevoli, di lettura di genere del mondo. Affermare di non essere sessista (o non essere razzista), non significa che non valga la pena riflettere sui meccanismi automatici, che esistono anche in noi nella misura in cui le società in cui viviamo sono impregnate di razzismo e sessismo[↩]. Ho cominciato identificando i miei biais e definendo dei percorsi che potrebbero essere raggruppati così:
- attenzione ai contenuti.
- attenzione alle relazioni intrattenute con studenti/studentesse.
- attenzione alle relazioni tra studenti/studentesse all’interno della classe.
L’integrazione invece che la bolla: un resoconto storico più completo
Prima di tutto mi sono interessata ai contenuti che trasmetto alle mie classi. È stata la cosa più facile, perché ho studiato in una scuola storiografica in cui uno degli obiettivi principali era far uscire le donne dal “silenzio della storia” [↩]. Ho cercato di sistematizzare questa pratica nei miei corsi generali, continuando un lavoro già avviato da diversi anni. Ci sono numerose modalità per proporre un racconto più inclusivo a seconda del tempo e della fatica che possiamo dedicare:
- Un buon punto di partenza potrebbe essere porre attenzione alle bibliografie distribuite a studenti e studentesse. Diversi studi hanno mostrato che le opere con autrici donne sono sistematicamente meno citate e meno visibili anche quando sono passate dai classici percorsi di valutazione[↩]. Per dirla in altre parole, basarsi sul solo criterio della “qualità” non è sufficiente: per poter usufruire dei lavori pubblicati dalle donne è obbligatorio fare uno sforzo attivo per andarseli a cercare, specialmente dato che l’inerzia ci spinge a poco considerare anche i “classici” che ci danno da leggere. Si deve quindi passare da un “volontarismo bibliografico” e dalla voglia di illuminare gli angoli ciechi della nostra conoscenza in campo storiografico.
- Il livello successivo è semplicemente integrare e sviluppare dei passaggi di storia delle donne all’interno dei corsi di storia generale. In un corso di storia politica dell’Europa del XIX secolo, ad esempio, vorrebbe dire dedicare qualche ora alla questione del suffragio e alle ragioni della mancata inclusione delle donne, oppure sviluppare il racconto delle lotte suffragiste dell’ultimo terzo di secolo. Piuttosto che menzionarle di passaggio come se fossero un trascurabile dettaglio, potremmo prenderci il tempo necessario a spiegare in che cosa il modo con cui le società percepiscono il genere ha influenzato la costruzione della vita politica degli Stati-nazione.
- Proseguendo – ed è ciò che ho fatto quest’anno – si può equilibrare il racconto delle esperienze e dei fatti storici che riguardano gli uomini e le donne. Questo richiede un vero e proprio sforzo perché gli esempi che vengono proposti dalla maggior parte dei materiali rappresentano esclusivamente la voce maschile: Frédéric Ozanam che racconta la rivoluzione del 1848, Ferry e Clemenceau che discutono, Garibaldi e Cavour che unificano l’Italia […]. Ho riorganizzato diverse parti in modo da inserire storie di esperienze femminili senza porre eccessivo accento, ovvero senza fermarmi per richiamare esplicitamente l’“attenzione, è arrivato il momento dedicato alle donne”. Per esempio, per descrivere l’universo liberale cosmopolita e lo sviluppo del sentimento nazionale italiano mi sono appoggiata alle testimonianze della patriota Cristina Trivulzio[↩]. Più avanti ho affrontato le forme di politicizzazione femminile fuori suffragio come le leghe. Questa “conversione” del corso richiede degli strumenti: io mi sono basata sull’eccellente enciclopedia online di Labex Ecrire une Histoire Nouvelle de l’Europe[↩].
Tra cura e critica: i rapporti con gli/le studenti/studentesse
L’analisi si è arricchita grazie all’appassionante articolo di Vanina Mozziconacci intitolato «il personale è accademico»[↩]. L’autrice riflette sulle pedagogie femministe e i loro effetti politici. Possiamo citare, in ordine sparso, la costruzione di spazi «sicuri» che evitino di (re)suscitare un trauma a studenti e studentesse esponendoli/e a contenuti sensibili (razzismo, sessismo, violenze…), l’utilizzo di trigger warning (avvertimenti riguardo ai contenuti) e, più in generale, l’idea che la classe debba essere un luogo rassicurante. Legando questa sensazione di sicurezza all’attitudine «non violenta» ed empatica di un’insegnante «disponibile a coccolare e sostenere gli/le studenti/studentesse perché possano sbocciare». Tale visione della pedagogia e della classe è fortemente criticata da Bell Hooks che auspica invece una «pedagogia del confronto». Vaniva Mozziconacci la cita:
L’obiettivo è di permettere a tutti gli studenti e tutte le studentesse di sentirsi capaci [empowered] di condurre una discussione critica rigorosa – e non solamente a coloro che si sentono già sicuri/e. Numerosi/e sono coloro che trovano questa pedagogia difficile ed esigente. In generale, non escono dalle mie lezioni dicendo quanto hanno apprezzato l’esperienza. […] Mi sono resa conta che i corsi che cercano di cambiare il paradigma e trasformare le coscienze non sono immediatamente considerati divertenti, positivi o rassicuranti [safe], e che questo non è un valido criterio di valutazione[↩]
Ne ho già parlato in un’altra occasione, ma faccio ancora fatica a capire dove posizionarmi tra questi due punti di vista: la necessità di mettere studenti e studentesse di fronte a contenuti difficili per poter stimolare una discussione e il mio desiderio di rendere possibile l’avvio di una conversazione senza essere immediatamente scioccante. Cosa significa quindi “essere femminista” nella mia relazione coi miei studenti e le mie studentesse?
Innanzitutto, al di là dell’invito alla “non violenza”, significa essere consapevole della mia responsabilità nei nostri interscambi e all’interno della classe. Responsabilità che non si esaurisce, per me, nel classico insegnare e imparare una lezione: nonostante tutti i limiti che vedremo, ritengo che prendermi cura di loro faccia parte dei miei compiti e la difficoltà stia proprio nel definire i confini di questa azione. Non sono la loro madre o una baby-sitter, ma non desidero neanche essere una professoressa distante o autoritaria. Cerco di avere con loro un approccio emotivo molto simile a quello che generalmente le donne assumono all’interno della loro famiglia o nel loro ambiente di lavoro. Ciò significa dichiarare che sono disponibile a parlare di difficoltà personali, esplicitare che le emozioni – positive o negative – sono utili all’interno della classe e nel processo di apprendimento, dosare e accompagnare la diffusione e la discussione di contenuti “sensibili”. Durante il primo semestre ho scritto a una studentessa che era spesso assente e sembrava stanca: mi ha spiegato che aveva problemi di salute che però non desiderava condividere con gli altri professori nonostante avesse preso zero a una verifica. In un caso come questo, qual è il mio ruolo? Non siamo più all’interno dello stretto ambito professionale, ma neanche in quello personale. Tuttavia, nel mio mondo ideale questo tipo di relazione fa parte del lavoro pedagogico.
Il problema è che non siamo nel mio mondo di fantasia in cui i compiti di cura sono ripartiti egualmente tra professori e professoresse. Studenti e studentesse capiscono molto velocemente a chi possono rivolgersi per condividere tale qualche problema e, generalmente, le persone sono sempre le stesse. Come fare allora a continuare ad occuparsene senza:
- riprodurre lo stereotipo per cui le donne sono sempre più amorevoli, dolci, attente, capaci di accompagnare, dedite…
- lasciar perdere chi potrebbe avere bisogno
- diventare una specie di “referente” della cura anche per i colleghi?
Questi tre elementi fanno sì che si corra il rischio di depoliticizzare le classi – e l’università – dimenticando che tutti questi compiti sono attraversati anche dai rapporti di potere. La sfida è riuscire ad articolare contemporaneamente due dimensioni diverse: sul lungo periodo una trasformazione delle pratiche universitarie in modo che ciascuno/a faccia la sua parte in modo equo, sul breve termine invece ritengo sia necessario che questo carico di cura continui ad essere assunto. Penso che presto comincerò a sollecitare i miei colleghi per discutere collettivamente delle questioni ed, eventualmente, delle modalità da utilizzare per dare visibilità a questo lavoro come avviene in altri casi con la creazione, ad esempio, dello statuto istituzionale di “referente di attenzione ” per studenti e studentesse.
Osservare (e correggere?) la dinamica di classe
L’ultimo elemento di riflessione sviluppato quest’anno riguarda la dinamica della classe e delle sue interazioni. Tocchiamo nuovamente punti sensibili tra pedagogia e femminismo: dove comincia e dove finisce “l’educare” chi è già un/una giovane adulto/a? La questione si complica ulteriormente per via del fatto che non tutti/e arrivano a lezione con la stessa consapevolezza delle inuguaglianze di genere[↩]. Quello che sicuramente non è difficile notare è che se si permette alle dinamiche di determinarsi in modo “naturale” – soprattutto al primo anno – gli interventi orali saranno prevalentemente dei ragazzi mentre le ragazze rimarranno prudentemente dietro ad osservare e questo non sarà dovuto esclusivamente alle caratteristiche individuali di ciascuno/a, ma anche e soprattutto ad una differente socializzazione. Come provare a cambiare?
Per riequilibrare la ratio degli scambi tra uomini e donne ho dovuto affrontare una difficoltà iniziale: evitare di accettare immediatamente l’intervento di uno studente maschio e aspettare che si alzino altre mani anche a costo di creare alcuni attimi di silenzio imbarazzante, cosa che all’inizio della mia carriera non sarei riuscita a fare. Ciò implica anche interrogare direttamente le studentesse in disparte mettendole a disagio (come dice Bell Hooks) per il tempo necessario affinché ognuno/a si abitui alla discussione collettiva. Tale attenzione alla “dinamica di gruppo” riguarda anche quella dei gruppi composti esclusivamente da studenti/studentesse: in alcuni lavori di gruppo ho potuto osservare che a volte si creano “bande” di studenti che occupano molto spazio (anche sonoro). In questi casi cerco di aprirne i confini, non per rompere i legami di amicizia o solidarietà, ma per evitare che le logiche di gruppo possano appesantire l’ambiente generale e incidere sulla capacità altrui di esprimersi. Infine, ho abbandonato – non solo, ma anche per queste ragioni – l’idea di lavori in cui la costituzione di un gruppo sia obbligata. Ho notato, infatti, che all’interno dei gruppi misti i compiti venivano divisi sempre nello stesso modo: rapporto con la professoressa affidato alle ragazze, ruolo di portavoce ai ragazzi. Nei momenti in cui permetto loro di organizzare il proprio lavoro, non voglio più rischiare di costringere gli uni e le altre ad una ripartizione stereotipata dei compiti obbligando ragazze e ragazzi che non si conoscono a lavorare insieme.
Tutti questi spunti non vogliono rivoluzionare da cima a fondo l’insegnamento o creare la classe “perfetta” da mettere sotto una campana di vetro per proteggerla dal suo ambiente sociale. Oltre ad essere impossibile, un progetto del genere depoliticizzerebbe il sessismo trasformandolo in un problema risolvibile dalle forze di volontà individuali all’interno della classe. Aspettando e preparando il «sovvertimento femminista dell’universo, della pedagogia e dell’istituzione» per citare Vanina Mozziconacci, provo ad applicare – non senza contraddizioni – una politica volontarista dei “piccoli passi”, che comincia dalla consapevolezza e neutralizzazione dei miei stessi pregiudizi e dalla riflessione sui contenuti e sulle modalità di stare e relazionarmi in classe.
- Qui ulteriori informazioni Loi de programmation de la recherche pour les années 2021 à 2030 | enseignementsup-recherche.gouv.fr, URL: < https://www.enseignementsup-recherche.gouv.fr/fr/loi-de-programmation-de-la-recherche-pour-les-annees-2021-2030-49733 > [consultato l’8 settembre 2023].
- Avrei parecchio da dire sul nostro rifiuto di vedere il razzismo all’università, anche nei gesti più quotidiani: dallo storpiare i nomi durante l’appello al confondere gli unici due studenti di origine straniera del gruppo…
- PERROT, Michelle, Les femmes ou les silences de l’histoire, Paris, Flammarion, 1998.
- Cfr., ad esempio, al lavoro fatto su “l’effetto Matilda”, URL: < https://www.franceculture.fr/dossiers/leffet-matilda-ou-les-oubliees-de-la-science > [consultato l’8 settembre 2023].
- Cfr. i lavori di Delphine Diaze sulle rotte dei rifugiati nell’Europa del XIX secolo.
- L’Encyclopédie pour une Histoire Nouvelle de l’Europe – LabEx-EHNE, URL: < http://labex-ehne.fr/lencyclopedie-pour-une-histoire-nouvelle-de-leurope/ > [consultato l’8 settembre 2023].
- MOZZICONACCI, Vanina, «”Le personnel est académique”, pour une subversion féministe de l’université, de la pédagogie à», in Genre, sexualité & société, 22, 2019, URL: < https://journals.openedition.org/gss/5897 > [consultato l’8 settembre 2023].
- Bell hooks, Talking Back: Thinking Feminist, Thinking Black, Boston, South end press, 1989, p. 53.
- Sul tema di un’educazione femminista si può fare riferimento all’ URL: < https://reflexivites.hypotheses.org/6540 > [consultato il 22 novembre 2023].
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