ISSN: 2038-0925

Devenir historien-ne: post #21

Prosegue la partnership avviata con Devenir historien-ne, il blog di informazione storica di Émilien Ruiz, Assistant Professor in Digital History presso il Dipartimento di Storia di Sciences Po a Parigi. Questo mese proponiamo la traduzione del post «Pour une histoire économique du politique».

La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.

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Per una storia economica della politica
25 gennaio 2016

di Mathieu Fulla

Uno dei principali obiettivi della nostra opera, pubblicata dalla casa editrice di Sciences Po, consiste nel sottolineare l’interesse di un approccio economico alla politica. La storia economica della politica così come la conosciamo studia il tessuto del discorso economico delle organizzazioni politiche – nella fattispecie, dei partiti socialisti francesi tra il 1944 e il 1981 – dalla sua elaborazione da parte degli «esperti» alla sua promozione da parte di dirigenti e propagandisti. In sintesi, si tratta di comprendere le evoluzioni – o involuzioni – dell’uso politico che i partiti socialisti fanno dell’economia e, contemporaneamente, di valutare il loro approccio ai progressi concettuali della teoria economica (keynesianismo, marxismo, «scuola della Regolazione»). Questa impostazione epistemologica permette di reinserire i partiti all’interno di una storia economica da cui troppo spesso vengono esclusi senza motivo e, viceversa, di mettere in luce l’importanza della tematica economica nell’elaborazione di strategie di partito, soprattutto in tempo di crisi.

Questo interesse del politico da parte dell’economia dinamizza campi di ricerca altrimenti creduti ormai esauriti. Il lavoro di Adam Tooze del 2006 rappresenta un magistrale esempio. Rimettendo nuovamente l’economia in una posizione centrale per la comprensione del regime nazista, lo storico britannico getta nuova luce sui motivi dell’aggressione hitleriana e sulle cause del suo fallimento1. Nel caso francese, le ricerche di Michel Margairaz hanno confermato l’importanza del messaggio economico e sociale della Resistenza nella costituzione di una cultura politica di regolazione trasversale ai partiti, alla base della crescita forte e continua degli anni 1950-19602. Lo stesso schema di lettura appartiene anche a periodi più recenti. Menzionando l’esempio della perestroïka sovietica, Mark Mazower mostra quanto una riforma economica di ampio respiro possa influire sulla trasformazione dello scenario politico di una società. Nello spirito di Michail Gorbačëv, la riorganizzazione del sistema economico russo doveva essere funzionale all’abbandono del socialismo di Stato e alla «democratizzazione di tutte le parti della nostra società»3.

La storia economica del politico proposta nell’opera si oppone così alla convinzione degli economisti «neoclassici» e «neokeynesiani» secondo cui gli strumenti forgiati dalla «scienza economica» basterebbero a spiegare la dinamica del capitalismo. Aderendo, in questo, all’«approccio istituzionalista»4 difeso da alcuni economisti eterodossi. Sulla scia dei primi regolazionisti degli anni Settanta (Michel Aglietta, Robert Boyer, Benjamin Coriat) sostengono, a fianco di Karl Polanyi, che l’economica politica sia immersa nella storia5. I lavori degli economisti Bruno Amable e Stefano Palombarini mantengono comunque forti legami con la nostra prima preoccupazione, sottolineare l’interrelazione costante tra il politico e l’economico, «campi autonomi, che rispondono [certo] a logiche irriducibili l’una all’altra», ma che si evolvono «condizionandosi reciprocamente senza che nessuna delle due determini strettamente la dinamica dell’altra»6. Questo appello aderisce nel suo obiettivo al pensiero di Thomas Piketty che nelle conclusioni del suo best seller fa riferimento ad un’«economia politica e storica» che studia unitamente le evoluzioni politiche ed economiche nella lunga durata7. Studiare le complesse relazioni tra le leggi economiche e il modo in cui le élites pensano e praticano la politica è una necessità per scrivere una «storia multidimensionale del capitale e delle relazioni di potere»; l’economista e i numerosi storici che ne seguono le orme la esprimono all’interno di una stimolante pubblicazione nelle Annales8.

Nell’elaborazione della politica economica il rispetto della teoria non gioca che un effetto marginale. In una democrazia liberale pluralista, la questione economica è determinata dalle sfide legate alla competizione per il potere. Nel momento in cui l’unione dei partiti di sinistra PS e PCF9 si basava, nel giugno 1972, su un programma comune che considerava l’estensione del settore pubblico bancario e industriale come la chiave di volta del suo progetto economico, le nazionalizzazioni diventarono di fatto un’arena privilegiata della battaglia politica, non solo tra destra e sinistra ma anche tra le sinistre. Nel 1977, le schermaglie tra socialisti e comunisti sulle nazionalizzazioni industriali raggiunsero un livello di violenza verbale uguale o superiore a quello che vedeva scontrarsi sullo stesso tema il governo Barre e i suoi oppositori.

Ridurre la storia del socialismo economico ai programmi ufficiali dei partiti porterebbe a omettere una dimensione essenziale per la sua comprensione, quella del processo e delle tecniche di realizzazione di un tale discorso pubblico. Il marxismo e l’anticapitalismo a cui si rifanno tutte le dichiarazioni dei principi dei partiti socialisti tra il 1905 e il 1990 nascondono la pluralità delle culture economiche a volte rivali, a volte complici, propria del socialismo politico. Svelare i segreti della costruzione del suo discorso economico implica concentrare l’attenzione sull’attore chiave della «sala macchine»: l’esperto incaricato.

L’esperto incaricato, figura centrale di una storia economica della politica

Tra l’economico e il politico sta l’esperto incaricato. Un approfondito studio di questo soggetto è necessario per superare lo stadio di una semplice storia dei programmi politici di partito. L’estrema diversificazione dei profili di esperti socialisti nello spazio e nel tempo implica il non poterli classificare come «economisti» senza utilizzare le virgolette10. Questo perché la maggior parte di coloro che si definiscono tali in realtà non fanno parte del mondo accademico in economia. All’interno delle numerose strutture di competenza create dalle diverse organizzazioni socialiste del periodo, parlamentari e sindacalisti della Force ouvrière ai tempi della SFIO e poi, a partire da metà degli anni Sessanta, alti funzionari, banchieri e quadri del settore privato erano molto più rappresentati degli universitari. Per un partito d’opposizione come il PS, in tempi di crisi il ruolo di questi esperti fu ancora più decisivo. Dopo la prima crisi petrolifera dell’ottobre 1973, i suoi dirigenti con più visibilità mediatica si mostrarono pubblicamente per sostenere la credibilità economica della loro formazione e la loro capacità di costruire un’alternativa credibile alle politiche di destra, incapaci di frenare l’aumento combinato di inflazione e disoccupazione.

La molteplicità delle posizioni dei principali esperti economici socialisti rese vani i tentativi di classificazione sul solo criterio socioprofessionale: nell’ambiente socialista era considerato esperto colui che veniva percepito come tale dall’alta dirigenza del partito, forte della sua capacità di tradurre il linguaggio tecnico dell’economia in un linguaggio più comune, quello della politica. I principali «economisti» socialisti erano per la maggioranza «politici esperti», professionisti della politica con una cultura abbastanza solida da poter supervisionare i lavori delle commissioni di studio e controllare che si adeguassero alla strategia dell’organizzazione. Jules Moch, Paul Ramadier e André Philip sotto la Quarta Repubblica, Jacques Delors, Laurent Fabius e Michel Rocard nei decenni successivi, illustrarono la direzione in cui questi attori si mossero, trasformando progressivamente la loro competenza economica iniziale in autorità sociale e – si potrebbe aggiungere estendendo la riflessione di Michel de Certeau – politica11. Usciti – a volte anche da molto tempo – dal loro laboratorio o dal loro ufficio, assicuravano la conversione di valutazioni prodotte da esperti più giovani in risorse politiche sfruttabili da leaders socialisti la cui cultura economica, per i più importanti tra loro – Léon Blum, Guy Mollet, François Mitterand –, restava rudimentale.

La lente della competenza permette anche di sollevare la questione dei legami tra socialismo politico e teoria economica. Sotto la Quarta Repubblica, forti personalità come Jules Moch o André Philip confrontarono il marxismo della SFIO con la rivoluzione keynesiana tipica degli Stati dell’Europa occidentale del dopoguerra: lo fecero senza essere tuttavia tenuti in considerazione. La situazione cambiò nei primi anni della Repubblica di de Gaulle. Tra gli anni Sessanta e la vittoria di François Mitterrand alle elezioni presidenziali del 1981, cominciarono ad emergere tre poli.

Il primo, marxista, rivendicava la teoria leninista del capitalismo monopolista di Stato (CME), riscoperta dal mondo comunista degli anni Sessanta e adottata dal PFC al termine della conferenza internazionale di Choisy-le-Roi del 26-29 maggio 1966. Vari «economisti» vicini a Jean-Pierre Chevènement, oltre che qualche esperto mitterandista, evitarono di soffermarsi su questa analisi, che presentava numerosi tratti comuni coi lavori della branca grenoblista che a partire dagli anni Ottanta viene comunemente – e impropriamente – chiamata «Scuola della Regolazione»12.

Questo primo polo coesisteva con degli «economisti» desiderosi di superare l’alternativa tra marxismo e keynesismo. Rigettato il CME, giudicato troppo schematico per afferrare la sottile dinamica del capitalismo, criticavano anche la macroeconomica keynesiana tradizionale. Influenzati dalle tecniche di pianificazione in vigore al ministero delle Finanze – all’interno del quale molti tra loro avevano lavorato –, questi esperti condividevano le analisi della branca parigina della «Scuola della Regolazione» caratterizzata dai lavori innovativi di Michel Aglietta e Rober Boyer. Coloro che erano vicini a Jacques Attali, Jacques Delors e Michel Rocard potevano essere raggruppati all’interno di un movimento di «regolazione keynesiana». «Economisti» che auspicavano un nuovo modello di crescita e la costruzione di nuovi indicatori socioeconomici. Alcuni tra loro rivendicavano anche un socialismo autogestito, reso popolare dal PSU e dalla CFDT nel 1968.

Dal congresso del PS a Épinay nel giugno 1971 alla rottura dell’unione della sinistra nel settembre 1977, questi «regolazionisti keynesiani» coesistettero con un terzo polo teorico, più vecchio ma in declino, quello dei «keynesiano-mendesisti». Scettici rispetto al marxismo e all’autogestione, questi eredi di Pierre Mendès France speravano, dalla fine degli anni Cinquanta, in un’economia mista in cui il mercato sarebbe stato regolato da un piano elaborato democraticamente. Promuovendo una forma di «neoplanismo», lontana erede dei lavori della Confédération générale du travail (CGT) degli anni Trenta, questi «economisti» aspiravano a riformare la dottrina socialista sul modello del SPD tedesco fin dal congresso di Bad Godesberg nel 1959. Difendevano un riformismo che giudicavano come «rivoluzionario» in quanto in grado di conciliare efficienza economica e giustizia sociale anche a breve termine. Negli anni 1970, la maggior parte dei «keynesiano-mendesisti» si raggruppò attorno a Pierre Mauroy. Le loro evidenti affinità coi «regolazionisti keynesiani» permetteva loro di formare un fronte relativamente comune contro i marxisti del CERES e la sezione economica del PCF.

Le sfide verbali tra «economisti» di sinistra, ricorrenti dopo il 1977, riguardavano più rivalità politiche che divergenze radicali sul modo di pensare all’economia. Senza voler affermare che ci fosse una perfetta comunanza di punti di vista tra «economisti» dell’opposizione, quest’ultimi attinsero però, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, da un fondo culturale comune basato su tre convinzioni: le disfunzionalità del capitalismo erano di tipo strutturale e non congiunturale; la nazione era il contesto di azione più pertinente della politica macroeconomica; l’utilizzo diverso degli strumenti nelle mani dello Stato avrebbe permesso di ottenere un tasso di crescita superiore a quello avuto dalla destra. La maggior parte di questi «economisti», compresi i marxisti, erano invece scettici sulla capacità di un potere socialista di rompere col capitalismo, riducendo l’obiettivo rivoluzionario espresso da François Mitterand a Épinay ad un mero volo pindarico congressuale.

Cercare di superare la semplice spiegazione di tutto sotto la chiave dell’incompetenza per comprendere la sinuosa dinamica del socialismo economico della seconda metà del XX secolo esige dei vai-e-vieni continui tra l’ideologia ufficiale dei partiti sociali e le culture economiche che gli esperti diffondevano al loro interno. Questo processo è il solo in grado di svelare le molle politiche dello sfasamento, più o meno importante a seconda del periodo, tra il fai-da-te ideologico marxista-keynesiano del discorso ufficiale e l’approccio «keynesiano-mendesista» o «regolazionista keynesiano» dei problemi sviluppati a porte chiuse nelle commissioni di studio. È questa constatazione a portarci a proporre una modellizzazione del processo di strutturazione del discorso economico socialista.

«Captazione-integrazione-conversione»: la creazione del discorso economico socialista

La storia del socialismo economico del XXI secolo mette in luce la relazione diseguale che c’è tra politico ed economico all’interno di un regime democratico pluralista e liberale. Nel corso di tutto il periodo, la linea economica delle organizzazioni socialiste, nella maggior parte dei casi relegate all’opposizione, veniva sovradeterminata dagli interessi strategici dei loro dirigenti. Sovradeterminazione non significa però univocità. Un aumento di competenza su una tematica economica comporta un aumento del suo valore per il partito. Le delicate negoziazioni sull’approvazione di un programma comune ne offrono un valido esempio: dall’autunno 1976, essendo impossibile poter pensare di avviare una negoziazione così delicata senza padroneggiare la struttura delle holdings il cui programma comune prevedeva la nazionalizzazione in caso di approdo della sinistra al potere, il socialismo industriale trovò il suo posto nell’agenda del PS. Un’embrionale politica dell’offerta fece così la sua entrata all’interno dei programmi elettorali di partito. Questa maniera di procedere non fu però propria del partito di François Mitterand. Durante il suo governo infatti, la costruzione di un discorso economico socialista (forse anche dell’insieme dei partiti repubblicani?) seguì un processo di creazione in tre fasi.

Il primo fu quello della «captazione». Seguendo l’iniziativa di un gruppo di studi, di un leader o di uno dei loro consiglieri, le formazioni socialiste si occupavano di un’opera teorica, di una rivendicazione sollevata dalle confederazioni sindacali e/o dal movimento sociale. Potevano anche decidere di reagire ad una misura economica o socio-economica governativa o, più semplicemente, a un evento (crisi petrolifera, licenziamenti industriali, ecc.) da cui i dirigenti avrebbero potuto trarre un profitto politico.

Se l’idea di «captato» è giudicata utile alla strategia di partito, viene anche resa conforme alla sua dottrina economica, arricchita così di riferimenti (Riconoscimenti ideologici?) marxisti obbligati ed eventualmente epurati da residui liberali. Questa seconda fase della conversione ideologica rivelò nettamente la sovradeterminazione dell’economico da parte del politico. L’autore Guy Sitbon osservò l’improvvisa evoluzione di Jacques Attali una volta nominato responsabile del programma presidenziale di François Mitterand nel 197413. Comparabile, ma di più alto livello, la tesi sostenuta dall’antropologo Georges Balandier che osservò il rischio, per gli intellettuali troppo vicini al Principe, di vedersi ridotti ad un ruolo accessorio per quello che riguardava le decisioni politiche14.

La terza fase della produzione fu quella dell’integrazione dell’ideologia economica nella propaganda dell’organizzazione. La mobilitazione delle risorse nella campagna elettorale non è mai a sé stante, ma varia a seconda della congiuntura politica, economica e sociale del momento. Al tempo della forte e duratura crescita degli anni Cinquanta e Sessanta, l’appello ad un’alternativa radicale alla politica governativa era inopportuna, se non suicida. A partire dal 1974, invece, la crisi spinse il PS a denunciare indefessamente il bilancio governativo e a porsi, all’instaurarsi del governo Mitterand nel 1981, come il più ardente difensore della piena occupazione attraverso l’attuazione di un’«altra politica».

Questo modello in tre fasi – «captazione-conversione-integrazione» – sottolinea la dialettica sottile che si sviluppa tra politico ed economico nelle organizzazioni socialiste. Al loro interno, così come probabilmente anche nel caso dei loro avversari, strategia politica e convinzioni economiche sono inestricabilmente legate e capire cosa deriva dalla cultura e cosa dall’ideologia non è sempre facile. Nell’opposizione così come al potere, il responsabile politico abile e ben consigliato sa giocare con la flessibilità per legittimare i suoi cambi di orientamento, in economica così come in qualsiasi altro campo. Perché in ultima istanza, il politico resta certamente l’ambito in cui, per riprendere le parole di Paul Valéry, tutto è possibile solo per magia. Cogliere le sfaccettature e le discrepanze tra la cultura degli esperti e la strategia politica dei dirigenti socialisti durante questo processo di costruzione del discorso economico, induceva a ricorrere ad una pluralità di fonti su cui adesso occorre dire qualche parola.

Imparare il politico attraverso l’economico, scrivere una storia del tempo presente

Gli archivi della sinistra non comunista sono caratterizzati dalla loro molteplicità e dispersività. Dovendo affrontare questa proliferazione di tracce, l’approccio alle fonti fu subordinato ad una doppia esigenza: evitare di considerare il partito come uno spazio di produzione economica chiuso; iscrivere la ricerca all’interno di una storia del tempo presente attraverso il confronto tra archivi di partito e archivi privati con le testimonianze di protagonisti del periodo.

Forte di questi principi, la nostra lettura delle fonti segue quindi il percorso delle idee economiche socialiste dallo stadio della produzione a quello della pubblicazione passando dalla loro ideologizzazione. I fondi conservati all’Office universitaire de recherche socialiste (OURS) e al Centre d’archives socialistes (CAS-FJJ) della Fondazione Jean-Jaurès costituiscono la base di questo lavoro. Rivelano la forte politicizzazione di cui l’economia è oggetto in seno agli organi dirigenti del Partito socialista tra il tempo della captazione e quella della pubblicazione.

Le lacune degli archivi di partito sono state colmate grazio al ricorso a numerosi fondi privati di militanti e responsabili socialisti. Conservati agli Archivi dipartimentali dell’Aveyron, gli archivi di Paul Ramadier, presidente del Consiglio nel 1947 e ministro degli Affari economici e finanziari nel 1956-1957, hanno aiutato a comprendere le relazioni conflittuali tra l’esecutivo socialista e i vari poli che influenzano in gradi diversi gli orientamenti della politica economica: l’amministrazione delle Finanze, il Partito socialista SFIO e i sindacati operai. Al Centre d’histoire di Science PO (CHSP), le carte di Alain Savary, successore di Guy Mollet a capo del partito (1969-1971), e di Gilles Martinet, vice-segretario nazionale del PSU (1960-1967), includono preziosi informazioni sul ruolo dell’economia nella costruzione identitaria di frange socialiste prima del maggio 1968. Per il PS, gli archivi di Andé Boulloche, depositati agli Archivi municipali di Montbéliard, sono ricchi di insegnamenti. Archetipo del «politico-esperto», un professionista politico dotato di una cultura economica sufficientemente solida per supervisionare il lavoro degli esperti e garantirne la conformità alla linea direttiva, gioca un ruolo maggiore nell’elaborazione e nella diffusione del pensiero economico del partito fino alla sua tragica morte durante la campagna elettorale del 1978.

Gli archivi di partito e privati offrono una buona panoramica delle fonti e dei personaggi chiave del processo di produzione e diffusione dei programmi economici socialisti. Allo stesso modo svelano le influenze politiche, sindacali e clubiste che hanno nutrito i testi prodotti dall’organizzazione. Negli anni Sessanta, infatti, la circolazione di idée tra SFIO, Fédération de la gauche démocrate et socialiste (FGDS) e le frange della sinistra non comunista era relativamente fluida. Un’attenzione particolare è stata quindi accordata agli archivi del Partito socialista autonomo (PSA) e del Partito socialista unificato (PSU), conservati agli Archivi nazionali e, per il periodo 1974-1988, al Centre d’histoire du travail de Nantes (CHT). Allo stesso modo, costituendo l’alleanza con il PCF la priorità delle priorità del PS dopo il congresso d’Épinay, le carte della sua segreteria alle Relazioni con l’estero sono state incrociate con quelle del PCF depositate agli Archivi dipartimentali della Seine-Saint-Denis.

L’analisi delle fonti sindacali ha seguito un procedimento simile. Vista la doppia affiliazione, socialista e sindacale, di un grande numero di esperti, Force ouvrière (FO) e Conféderation française des travailleurs chrétiens (CFCT), poi CFDT, hanno sicuramente esercitato un’influenza sui programmi economici di partito. Gli archivi confederali e federali della CFTC/CFDT testimoniano l’avvicinamento ideologico, culturale e umano che a partire dagli anni Sessanta legò sindacato e socialismo politico. Per quanto riguarda la FO e la CGT i risultati sono stati meno fruttuosi, essenzialmente a causa della rarità di documenti pertinenti aperti alla consultazione. Per la FO la difficoltà ha potuto essere in parte aggirata facendo ricorso agli archivi di Albert Gazier, di Guy Mollet e della SFIO (OURS), alle memorie (deludenti) del suo segretario generale André Bergeron e a documenti ufficiosi. Quanto alla CGT, a causa del suo legame privilegiato con il PCF, la sua vicinanza culturale in campo economico con il socialismo politico prima degli anni Settanta appariva poco evidente. Dopo la firma di un programma comune si sarebbe invece potuto pensare ad una sindacalizzazione più massiccia degli esperti socialisti nella confederazione di Georges Séguy. Ma il nostro studio quantitativo su un insieme di 196 esperti attraverso l’analisi di corrispondenze multiple (ACM), rivela che la CFDT è rimasta il polo dominante di sindacalizzazione degli esperti socialisti – quando una sindacalizzazione c’è – qualsiasi sia la corrente di appartenenza (mitterandista, mauroyista, rocardiana, CERES per citare le più importanti).

In linea con la prospettiva della storia del tempo presente, sono stati realizzati da parte di esperti e responsabili politici del periodo una quarantina di interviste quasi dirette riguardanti gli anni Sessanta e il periodo di Épinay. La scelta dei testimoni mirava a non privilegiare una corrente rispetto ad un’altra, a evitare la sovrarappresentazione degli specialisti di macroeconomia rispetto ai loro omologhi esperti di politica industriale o di socio-economia e, in prospettiva comparativa, a raccogliere le parole degli esperti del PSU e del PCF. Si trattava di incrociare le testimonianze di «politici-esperti» con quelli di esperti meno conosciuti ma rappresentativi dei tre principali profili socioprofessionali – alti funzionari, universitari, quadri del settore privato – valorizzati dall’ACM. Una logica simile ha portato a confrontare i discorsi di personaggi conosciuti dal grande pubblico (Jacques Attali, Michel Rocard) con quelli di ottimi conoscitori degli ingranaggi interni del PSU di Épinay (Jean-Marcel Bichat, Claude Bernet, Georges Gelly). Questa storia orale ha permesso di dare corpo a una «sala macchine» di cui gli organigrammi delle commissioni di studio descrivono le complessità di funzionamento solo in modo imperfetto. Dei questionari basati sul ruolo dell’esperto nell’ambiente di partito completano questo materiale. Gli «economisti» del PCF e del PSU degli anni Settanta ne sono stati i principali protagonisti.

Questo approccio alle fonti, associato alla scelta di studiare il socialismo economico in una prospettiva di lunga durata ha messo in luce la sovrapposizione imperfetta del tempo del politico e dell’economico.

Economia e politica: l’incongruenza dei tempi

La cronologia del socialismo economico del dopoguerra si presenta come un decalogo imperfetto dei cicli politici messi in risalto da Alain Bergounioux e Gérard Grunberg nella loro storia del socialismo francese15. Si possono distinguere quattro periodi.

Il primo va dalla Liberazione alla caduta della Quarta Repubblica. Dopo un breve periodo (1944-1946) in cui l’interventismo era la parola chiave del discorso e della politica economica socialista, la pressione comunista, la scelta delle alleanze al centro in nome della difesa repubblicana e l’influenza crescente dei sindacalisti FO nel processo di conoscenza hanno scavato il divario tra un’ideologia marxista e una cultura «riformista», desiderosa più di riforme socioeconomiche immediate che dell’estensione dello Stato industriale e banchiere. La politica economica di Guy Mollet e Paul Ramadier ai tempi del Front républicain rivelò le fragilità di un’amalgama che si scontrava con l’ostilità dell’alta funzione pubblica e del patronato. Questo breve passaggio alle responsabilità degrada ulteriormente l’immagine del socialismo economico: i successori di Guy Mollet furono costretti a chiedere gli aiuti degli Stati Uniti e del Fondo monetario internazionale (FMI) per finanziare il deficit nell’equilibrio dei pagamenti, quello che l’opinione pubblica percepì come un’ennesima umiliazione nel doloroso contesto della guerra in Algeria16.

Si aprì poi un decennio (1958-1968), in cui i margini socialisti e la minoranza della SFIO in opposizione a Guy Mollet tentarono di convertire il partito ad un approccio «keynesiano-mendesista» dei problemi economici. A partire dal 1965, la loro iniziativa si scontrò coi tentativi di riavvicinamento della Fédération de la gauche démocrate et socialiste (FCDS) – sostenuti con forza da François Mitterand e Guy Mollet – con i comunisti. La ragione politica riprese il suo posto all’interno dei programmi; il cambiamento «riformista» del socialismo economico rimase parziale e incompleto.

Gli eventi di maggio-giugno 1968 comportarono una nuova configurazione. Sotto il transitorio governo di Alain Savary tra il 1969 e il 1971, il PS rinnovò il suo discorso economico inscrivendolo all’interno di un triangolo formato da nazionalizzazioni, pianificazione democratica e autogestione. Fu nell’ottica di un’unione di sinistra, per agevolare i rapporti con il PCF, che l’insediamento di François Mitterrand lo spinse verso le nazionalizzazioni. Le questioni economiche e sociali diventarono allora il minimo comun denominatore tra due formazioni che sulla maggior parte dei più grandi problemi del momento avevano posizioni divergenti (difesa nazionale, politica estera ed europea). Il deludente risultato del PS alle elezioni legislative del marzo 1973 spinse però François Mitterand a prendere le distanze dal programma comune.

La sua campagna presidenziale del 1974 aprì l’era di quella che viene chiamata strategia «sul filo del rasoio». Soggetto alle pressioni convergenti – e contrarie – del PCF e della «deuxième gauche», il primo segretario puntava ormai a conservare un equilibrio tra marxismo, «keynesiano-mendesismo» e «regolazionismo keynesiano» in tutti i suoi discorsi pubblici. Furono molti gli esperti, per la maggior parte provenienti dalle principali dirigenze del ministero delle Finanze, ad aiutarlo a compiere questo numero da equilibrista. Tale strategia rinforzò la credibilità economica socialista senza rimettere eccessivamente in discussione la sua immagine di alternativa radicale alla destra, la cui buona reputazione era stata minata dalla crisi e dalla forte crescita del tasso di disoccupazione. Appropriandosi del linguaggio e del savoir-faire della cultura dominante al vertice dello Stato, il PS e il suo leader ne guadagnarono in autorità anche se, all’alba dello scrutinio presidenziale del 1981, i pregiudizi delle élites e dell’opinione pubblica riguardo alla gestione socialista erano ben lontani dall’essere superati.

Linea di separazione
  1. ID., Le Salaire de la destruction: formation et ruine de l’économie nazie, Paris, Les Belles Lettres, 2012 [2006], pp. 21-24. []
  2. MARGAIRAZ, Michel, La faute à 68? Le Plan et les institutions de la régulation économique et financière: une libéralisation contrariée ou différée?, in MARGAIRAZ, Michel, TARTAKOWSKY, Danielle (dir.), 1968 entre libération et libéralisation: la grande bifurcation, Rennes, PUR, 2010, pp. 41-62. []
  3. MAZOWER, Mark, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Milano, Garzanti, 2016, p. 372. []
  4. POSTEL, Nicolas, «Le pluralisme est mort, vive le pluralisme!», in L’Économie politique, 50, 2011, pp. 6-31. []
  5. BOYER, Robert, La Théorie de la Régulation: une analyse critique, Paris, La Découverte, 1986; BOYER, Robert, «L’économie peut-elle (re)devenir une science sociale? À propos des relations entre économie et histoire», in Revue française de socio-économie, 13, 2014, pp. 207-223. []
  6. AMABLE, Bruno, PALOMBARINI, Stefano, L’Économie politique n’est pas une science morale, Paris, Raisons d’agir, 2005, p. 267. []
  7. PIKETTY, Thomas, Le Capital au xxie siècle, Paris, Seuil, 2013, pp. 945-950. []
  8. «Lire Le Capital de Thomas Piketty», in Annales. Histoire, sciences sociales, LXX, 1/2015, pp. 5-138. []
  9. PS (Parti socialiste), PCF (Parti communiste français). []
  10. FOURCADE, Marion, Economists and Societies: discipline and profession in the United States, Britain, and France 1890s to 1990s, Princeton (N. J.), Princeton University Press, 2009 ; LEBARON, Frédéric, «Qui sont les économistes? Une sociologie méconnue», in L’Économie politique, 58, 2013, p. 24-34. []
  11. CERTEAU de, Michel, L’Invention du quotidien, t. 1, Arts de faire, Paris, Gallimard, 2007, pp. 21-22. []
  12. BOYER, Robert, La Théorie de la régulation: une analyse critique, cit., pp. 25-30. []
  13. «Coiffé de responsabilités, l’intellectuel d’hier tourna instantanément au politique. Une proposition n’est plus vraie ou fausse, elle est bonne ou mauvaise pour nous. Il valait mieux que le bon pour nous soit vrai mais ce n’était pas l’essentiel. On partait pour gagner des voix, pas pour décrire le monde tel qu’il est». SITBON, Guy, Le Cas Attali, Paris, Grasset, 1995, p. 115. []
  14. BALANDIER, Georges, Le Pouvoir sur scènes, Paris, Fayard, 2006, p. 77. []
  15. BERGOUNIOUX, Alain, GRUNBERG, Gérard, Les Socialistes français et le pouvoir: l’ambition et le remords, Paris, Fayard, 2005. []
  16. BOSSUAT, Gérard, Les Aides américaines économiques et militaires à la France, 1938-1960: une nouvelle image des rapports de puissance, Paris, Comité pour l’histoire économique et financière de la France, 2001, pp. 346-350. []

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