Devenir historien-ne: post #23
Prosegue la partnership avviata con Devenir historien-ne, il blog di informazione storica di Émilien Ruiz, Assistant Professor in Digital History presso il Dipartimento di Storia di Sciences Po a Parigi. Questo mese proponiamo la traduzione del post «Des usages littéraires de l’histoire».
La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.
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di François-Ronan Dubois

Der Bücherwurm (1850),
di Carl Spitzweg (1808–1885)
via Wikimedia Commons
Quelli che come me amano leggere le calls for papers – ognuno sfrutta il tempo libero come può – avranno familiarità con il “trucchetto” dell’inversione che permette di produrre titoli con poco sforzo: «Il potere delle parole e le parole di potere»; «Turismo in città e città di turismo». Nel 2011 è stato pubblicato un post sull’uso storico della letteratura: perché allora non scriverne uno sugli usi letterari della storia? Abbiamo già pronta una lista di esempi: si potrebbe parlare del dramma storico in epoca romantica, della chanson de geste, di Esiodo, di medievalismo… ce ne sono tanti!
Il post del 2011 si domandava quale possibilità avesse uno storico di studiare un testo letterario come un documento storico. Ovviamente, questa attività, che desta la diffidenza degli storici seri – e con loro degli archivisti -, deve prevedere parecchie precauzioni per proteggersi dalle lusinghiere immagini che il romanzo, genere dannoso qual è, instilla nelle menti troppo entusiaste dei propri lettori, anche dei più attenti. Al contrario, la presenza della storia nella letteratura – per quanto scrupolose possono essere le ricerche dei letterati – nasconde sempre una manipolazione delle fonti. Come Lafayette, ad esempio, che pur facendo riferimento a storici affidabili, aggiunge comunque personaggi che non sono mai esistiti. La dubbia integrità di questi affabulatori ispira prudenza sia ai letterati che agli storici.
Queste commistioni sono frequenti e senza dubbio molto interessanti, ma pongono una questione ontologica importante: che rapporto deve esserci tra le discipline? Non più utilizzi storici della letteratura o letterari della storia, ma uso di studi letterari da parte degli storici e, reciprocamente, di studi storici da parte dei letterati. Storici e storiche che leggete questo post, sappiate che a mio umile parere, su questo, noi letterati valiamo molto più di voi. Anche se ci accusate sempre di colpevoli fantasticherie e di un’inclinazione sconosciuta per la psicanalisi selvaggia, noi vi leggiamo volentieri, o insomma, quanto meno vi leggiamo.
D’accordo: non tutti. Ve lo dico sinceramente, alcuni di noi hanno ben di meglio da fare che interrogarsi sui polipi di Madame de Lafayette o sulle amanti di Racine. Alcuni di noi classificano, costruiscono, decostruiscono, tagliano, etichettano, testano, provano, smentiscono, subodorano e confermano, insomma si occupano di teoria, poetica, retorica, narratologia, morfologia, schema dei personaggi, in cento parole come in una: non si preoccupano molto di storia letteraria. Ovviamente, non è tutto vero. La verità è che dalla filosofia tedesca alla Critica Nuova, dalla mitologia comparata alla morfologia dei racconti, avevo scritto una prima versione di questo post per arrivare al grande scontro di un campo contro l’altro, della novità contro la storia letteraria psico-lansoniana incastrata nella sua cattedra sorboniana da decenni, ma questa storia delle nostre storie è prestabilita e a volte inesatta. Non ci dice niente.
La verità è che ben al di là dei conflitti e delle scuole, delle grandi prese di posizione epistemologico-teoriche in cui a volte la fonte sembra essere un po’ prosciugata, l’uso di studi storici negli studi letterari, nel piccolo quotidiano di piccoli articoli, è costante. L’immensa maggioranza delle pratiche interpretative partono dal presupposto che i condizionamenti del testo da parte del suo contesto di produzione sono fondamentali, sia in ordine di importanza che in ordine cronologico. In altri termini, le pratiche interpretative più frequenti suppongono che il senso di un testo sia spiegato dal suo contesto di produzione e che questa spiegazione sia importantissima, anche se il contesto di ricezione, il suo genere, la sua forma o la ricorrenza di certi processi possono mettere in luce altre caratteristiche. Questa debole versione della storia letteraria – debole non in ragione della sua efficacia ma della sua indifferenza per ogni dimostrazione sistematica del proprio interesse – è in qualche modo la lingua franca degli studi letterari.
Una simile concezione implica almeno un interesse per due tipi di studi storici: quelli che riguardano l’epoca del testo e quelli che si concentrano invece sull’epoca a cui il testo fa riferimento. Gli ultimi possono sovrapporsi ai primi, come risulta evidente, ad esempio, quando si studia A Farewell to Arms o La religieuse, ma ci sono altri casi in cui sono distinti, come quando il testo si presenta in se stesso come l’esposizione di un periodo storico particolare, per esempio ne La Princesse de Clèves o in Hernani. Un simile processo prevede l’utilizzo di studi storici come fonti enciclopediche che riportano un repertorio di eventi o la sintesi dello spirito di un’epoca. Questo uso, che è comunque il minore possibile, non implica alcun gesto storico da parte del letterato.
Il grado superiore è quello dello storico letterario. La storia letteraria certamente non è uscita rafforzata dai litigi del secolo scorso. Si è anche parecchio modificata, ma mantiene la sua particolare e un po’ problematica prospettiva: fornire una storia dei testi letterari, che sia una storia disciplinarmente diversa dalle altre, come se i testi letterari fossero così specifici e così diversi dagli altri artefatti culturali da esigere un trattamento differente. La storia letteraria considerata in questi termini, come per altre ragioni anche la storia dell’arte, si distingue talmente a tal punto dal resto della metodologia storica che ci si domanda se non sia in realtà una cronologia o una specie di biologia evoluzionistica della letteratura. In ogni caso è respinta da tutto ciò che è extra-letterario e si rifiuta di scendere al di sotto di un livello tacitamente determinato di concreto e di documentato, a partire dal quale la storia letteraria non è più letteraria, ma solamente storica.
Le storie culturali procedono molto diversamente. La più importante tra loro è certamente la storia del libro. La storia del libro si distingue radicalmente dalla storia letteraria perché, pur operando sullo stesso terreno, di occupa di temi apparentemente molto diversi. Mentre un testo letterario continua a occupare un posto centrale nel programma della storia letteraria, all’interno di quello della storia del libro, concentrata da una parte sull’oggetto libro e sulle tecniche di produzione e diffusione (anche nei loro aspetti più concreti), dall’altra sui documenti che evocano i libri intesi come oggetti, i contratti di librai o editori, gli inventari di cui siamo entrati in possesso successivamente al decesso di chi li ha redatti e i cataloghi, non ha che un’importanza marginale. Al contrario della storia letteraria, che è una disciplina fondamentalmente letteraria con un’inflessione storica, la storia del libro è una disciplina fondamentalmente storica con un’inflessione (a volte) letteraria. Di conseguenza, i metodi e le fonti dell’una e dell’altra sono diversi.
Il mio obiettivo non è dichiarare la storia del libro infinitamente superiore a quella letteraria. È certamente molto più rigorosa, rispetto ai criteri storici, di quella letteraria, ma quest’ultima, esattamente perché è un’emanazione di studi letterari, spesso offre risultati molto più soddisfacenti. In più bisogna aggiungere che questo quadro ben ordinato è in verità un po’ datato, sia perché la storia culturale tende a unire storia letteraria e storia del libro, almeno per quello che riguarda il testo, sia perché la storia letteraria stessa, per rispondere alle critiche formulate contro di lei nella seconda metà del XX secolo, si è considerevolmente riavvicinata ai metodi storici, senza però uscire dai confini tematici che si era imposta.
Il risultato di questa configurazione è l’esistenza di importanti disequilibri all’interno degli studi letterari: tra coloro che si occupano di testi particolari per interpretarli e coloro che si occupano di fenomeni generali. Se le teorie letterarie e gli approcci storici hanno trovato tanto da criticarsi reciprocamente è perché condividono un interesse per il processo. Le pratiche interpretative sono per la maggior parte del tempo portate a utilizzare sia le conclusioni della teoria letteraria sia quelle degli approcci storici in maniera enciclopedica, non problematica. La cavalleria prodotta dalla storia letteraria così come la focalizzazione della teoria letteraria sono degli strumenti slegati dalle loro problematiche epistemologiche specifiche.
All’altra estremità dello spettro esistono una miriade di pratiche a volte anche iper-specializzate condannate, da questo punto di vista, a un relativo isolamento: la codicologia, l’ecdotica o la retorica formale non forniscono quasi mai strumenti diretti alle pratiche interpretative. Tra i due estremi si posizionano discipline più flessibili, come la storia letteraria, la storia del libro o la storia culturale, che contrattano la circolazione delle proprie conclusioni, dei concetti e degli strumenti all’interno della disciplina degli studi letterari allargata. Il fantasma di una storia letteraria veramente storica non risulterebbe che una profonda mancata comprensione del funzionamento dei saperi, sia letterari che storici. L’eredità storiografica del dibattito degli anni Settanta e Ottanta ha permesso di sviluppare l’idea che i principi metodologici delle differenti sottodiscipline letterarie entrino in concorrenza gli uni con gli altri per la definizione di un unico soggetto, ma siano in realtà incommensurabili non perché differiscono per la natura dei loro documenti, ma per la loro maniera di trasformarli in soggetti.
Discutere di questa incommensurabilità ci condurrebbe a considerazioni epistemologiche relativamente estranee all’obiettivo di questa rivista. Per concludere, due osservazioni. Tanto per cominciare, qualsiasi discussione riguardo alla validità di un approccio documentale, comune o particolare, deve prendere in considerazione che la costruzione dei saperi su tale documento è un processo collettivo, almeno in maniera indiretta, e che l’esclusione di tale o tal’altra considerazione a riguardo di tale o tal’altro approccio può entrare in un processo compensatorio grazie allo sviluppo di collaborazioni effettive, condotte da ricercatori e ricercatrici con metodi divergenti. In più, i testi accademici non sono diversi dagli altri documenti e, come tali, possono essere costruiti e utilizzati in un modo fondamentalmente distinto da quello dei loro autori. Il letterato che prende in prestito allo storico o lo storico al letterato non è mai limitato da un ipotetico dovere di rigore metodologico a farsi a propria volta storico o letterato. Anche adottando questo rigore si può scommettere che non potremmo che averne tutto da perdere…
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