ISSN: 2038-0925

Devenir historien-ne: post #34

Prosegue la partnership avviata con Devenir historien-ne, il blog di informazione storica di Émilien Ruiz, Assistant Professor in Digital History presso il Dipartimento di Storia di Sciences Po a Parigi. Questo mese proponiamo la traduzione del post «Pour une histoire économique du politique».

La traduzione e l’adattamento dal francese sono stati curati da Ludovica Lelli, curatrice della versione italiana della rubrica.

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Fare un’economia della storia è possibile? Verdun, Vichy e le condizioni di un dialogo interdisciplinare
18 aprile 2021

di Anne-Sophie Anglaret, Tal Bruttmann, Sarah Gensburger, André Loez, Antoine Prost

Le scienze sociali si distinguono dalla fiction e dal buon senso non solo perché hanno come obiettivo il racconto della verità, ma anche e soprattutto perché è possibile metterne in discussione sia i metodi che i risultati. Ecco perché siamo felici della discussione che è nata con studiose e studiosi di scienze economiche come Julia Cagé, Anna Dagorret, Pauline Grosjean e Saumitra Jahal, riguardo ad un loro lavoro in cui stabilivano connessioni tra l’esperienza di combattimento nella Prima guerra mondiale e il collaborazionismo durante l’Occupazione. In un momento in cui il dibattito pubblico riecheggia di invettive e in cui le discussioni scientifiche sono difficilmente separabili dalle questioni politiche, è puramente sul terreno degli argomenti e delle prove che intendiamo discutere il loro lavoro. Una discussione serrata ma senza acrimonia, giustificata dall’importanza della posta in gioco: alla base, la portata degli eventi storici considerati; sul piano metodologico, l’ampiezza dei disaccordi e, secondo noi, degli errori che vanno individuati nel loro testo e nei riguardi delle loro ipotesi stesse; più in generale, le idee di ricerca che emergono dai nostri opposti approcci.

Da Verdun a Vichy: le tappe di una controversia

Questa discussione ha conosciuto quattro precedenti episodi che ricordiamo brevemente. Inizialmente, nel 2020, è stato presentato un lavoro di ricerca in inglese dettagliato (76 pp.) intitolato Heroes and Villains: The Effects of Combat Heroism on Autocratic Values and Nazi Collaboration in France. Il testo presenta un meccanismo semplice, ben sostenuto da sapienti calcoli: «gli individui nelle municipalità che hanno servito a Verdun sotto Pétain hanno dal 7 al 10% di probabilità in più di sostenere il regime autoritario di Pétain e di far parte di organizzazioni collaborazioniste»1.
Chiunque abbia già lavorato sull’Occupazione rileva fin da questa prima fase quali intrecci siano stati fatti tra il sostegno a Vichy e il collaborazionismo pro-nazista nonostante rientrino in logiche politiche differenti e in parte opposte. E chiunque abbia già lavorato sulla Grande Guerra non può esimersi dal chiedersi che senso dare all’idea di «municipalità che hanno servito a Verdun sotto Pétain», perché la mescolanza geografica delle truppe è una delle caratteristiche del conflitto e in particolare di questa battaglia.
Tuttavia, nel campo della storia questo testo sarebbe potuto passare inosservato e venire approvato solo dall’abito economico a cui è stato presentato in via esclusiva e che gli ha anche assegnato un premio. Noi ne abbiamo preso conoscenza grazie alla pubblicazione di una versione ridotta, in francese, in cui viene riassunto il proposito dello studio cercando di collegarlo all’attualità politica e mediatica stabilendo un’analogia con il ruolo svolto dai veterani americani nell’assalto al Campidoglio all’inizio del gennaio 2021. È quindi in un terzo tempo che abbiamo cominciato a ribattere a questi due testi e alle loro asserzioni storiche in modo dettagliato, in ragione dei limiti concettuali, degli errori di fondo e dei problemi metodologici che ci sembrava avessero.
Tra i difetti evidenziati figuravano il carattere monocausale dei ragionamenti, l’incongruità del vocabolario che distingueva gli «eroi» dai «cattivi», l’assenza della benché minima definizione di «collaborazionismo», l’assenza di una dimostrazione empiricamente fondata dei meccanismi con i quali «reti di individui dai percorsi eroici» avrebbero trasmesso dei «valori autoritari e anti-democratici» dalla Prima alla Seconda guerra mondiale2, l’inaffidabilità delle fonti alla base dei calcoli, il divario notevole che c’è tra gli effettivi reali dei movimenti collaborazionisti e le proporzioni utilizzate nel loro lavoro, nonché un errore di base di comprensione delle unità militari del 1914-1918 che condiziona l’insieme di questi conseguenti sforzi di quantificazione.
A queste obiezioni, che in questa sede non saranno riprese nel dettaglio, è stata a sua volta redatta una risposta che contiene due tipologie di argomenti. Innanzitutto, si tratta, fin dal sottotitolo («la statistica non è una disciplina facoltativa»), di una squalifica di chi si pone in posizione di confronto, che sembra debba ignorare la logica matematica: «i nostri detrattori sembrano non aver ben compreso le basi del nostro metodo statistico»3. Peggio ancora, non ci saremmo «presi la briga di capire» il procedimento, dimostrandoci «superficiali» nella lettura4. Una superficialità che, secondo questa sentenziosa osservazione, sarebbe dovuta tanto alle nostre appartenenze professionali quanto alla nostra generazione: «c’è stato un tempo in cui gli storici si preoccupavano di sviluppare un approccio rigoroso alle fonti quantitative e non consideravano la statistica una materia facoltativa»5.
Non riteniamo affatto che la statistica possa essere una materia facoltativa. Lo attestano i nostri stessi lavori di ricerca, in parte basati su banche dati costruite pazientemente e interrogate con l’ausilio di diversi strumenti statistici. Semplicemente, pensiamo che sia importante utilizzare dati affidabili di cui si possa tracciare le modalità di costruzione, per effettuare calcoli, domandarsi il senso e la pertinenza delle categorie utilizzate (in quanto «collaboratori»), e riferire i risultati a logiche sociali plausibili e coerenti non riconducibili ad una quantificazione. Pensiamo – e forse ad occhi economisti risulta eterodosso – che il calcolo di una correlazione non definisca una causalità6. Dietro a questa accusa di ignoranza della statistica si svela, in realtà, una concezione sorprendentemente ristretta di ciò che dovrebbe essere «l’eco-storia» e degli strumenti statistici di cui potrebbe disporre: come se, non appena si ottiene un risultato statisticamente «significativo», le regressioni che servono a stabilire correlazioni fossero uno strumento unico, perfetto e probante. Ribadiamolo: gli strumenti statistici – regressioni o altro – non si sostituiscono mai all’identificazioni di meccanismi in grado di spiegare i risultati. L’impressione di trovarsi di fronte ad una verità rilevata e di poter così sostituire una pur necessaria e insuperabile interpretazione è, d’altronde, proprio uno dei più grandi pericoli che l’utilizzo di questi strumenti porta con sé. Cercheremo qui di mostrare perché, a differenza di una cultura disciplinare che valorizza queste iniziative, le stesse, se applicate artificialmente su materiali storici non sufficientemente lavorati come possono essere le fonti, che si fanno responsabili di pesanti deformazioni.
La seconda linea argomentativa che Julia Cagé, Anna Dagorret, Pauline Grosjean et Saumitra Jha avanzano nella loro risposta consiste, in sostanza, nel non tener conto delle numerose critiche formulate riguardo ai metodi, alle fonti e all’argomentazione, ribadendo la validità dei loro risultati fondati sulla certezza che la correlazione calcolata tra «Verdun sotto Pétain» e «il collaborazionismo» è così forte che non può essere casuale. Citiamo il passaggio più significativo del loro testo:

I risultati che otteniamo sono casuali? Come sempre in materia di analisi statistica, ovviamente questa è una possibilità. Dato il gran numero di comuni utilizzati (circa 35.000), però, la probabilità che tale relazione sia stata ottenuta casualmente, cioè che i comuni che hanno servito sotto Pétain ospitassero più collaborazionisti, anche se nulla li distingueva prima della guerra, appare estremamente debole: secondo le nostre stime inferiore all’1%. Se i nostri detrattori vogliono rifare i nostri calcoli sono naturalmente liberi di farlo. Ma mettere in discussione il nostro lavoro e i nostri risultati nel modo in cui è stato fatto, senza nemmeno essersi presi la briga di comprendere i fondamenti del nostro metodo, ci sembra problematico e poco conforme agli usi della ricerca nelle scienze sociali7.

Anche se non possiamo «rifare i calcoli» proposti, poiché la principale fonte su cui si basa il loro testo non è in nessun fondo di archivio8, si può (ri)spiegare in modo semplice e «conforme agli usi della ricerca» quale errore iniziale di comprensione dei materiali invalidi l’intero ragionamento. In questo modo perseguiamo due obiettivi. Prima di tutto vorremmo che le colleghe e il collega del gruppo di lavoro ci ascoltassero: la storia e le scienze sociali possono essere utili all’economia, forse ancor di più quando questa si definisce come «eco-storia». Chiediamo un lavoro che sia veramente interdisciplinare e fatto di rispetto reciproco. Poi, in un’epoca in cui i «dati» sono regolarmente presi in causa a fondamento di questa o quella «fake news», ci sembra importante mostrare a tutti quanto, se si vogliono trarre conclusioni dai risultati delle analisi statistiche, anche fatte da autorevoli studiosi, questi debbano sempre essere riportati alle loro condizioni di produzione.

La falsa separazione tra i comuni che «hanno servito» o no «sotto Pétain»

Il ragionamento che vuole associare «Verdun» a «Vichy» poggia su un fondamento spaziale: separano i luoghi in cui i soldati avrebbero «combattuto a Verdun sotto Pétain» da altri in cui non è stato così. Il problema è che, in realtà, soldati di tutto il territorio hanno combattuto «a Verdun sotto Pétain» nelle stesse proporzioni.
Certe volte le carte valgono più di tanti discorsi: innanzitutto esaminiamo quelle che vengono proposte nel testo, usate per definire quali, tra i comuni francesi, avessero una più alta proporzione di «collaborazionisti». Hanno diviso il territorio in quattro zone distinte: in due (segnalate con i tratteggi orizzontali o verticali) tutti o parte dei reggimenti, in un momento o un altro, avrebbero «combattuto a Verdun sotto Pétain», la terza (tratteggi obliqui) è un comune in cui gli uomini avrebbero combattuto a Verdun solamente da maggio 1916, in un momento in cui Pétain non era già più al comando della II armata («Verdun not Pétain»), l’ultima zona (bianca) a Verdun non sarebbe stata presente affatto.

Fonte : « Heroes and villains », cit., p. 14.

Se si parla di calcoli su scala «comunale», anche di «35.000 comuni», nel testo di Julia Cagé, Anna Dagorret, Pauline Grosjean e Saumitra Jha si nota che, secondo i loro dati e le loro carte, ad essere interessate sono in realtà zone molto ampie che si basano su bacini di reclutamento militare precedenti al 1914 ed omogenei sul piano geografico. In questo modo, tutti i dipartimenti dell’Ain o della Manica risultano non aver partecipato alla battaglia di Verdun («not Verdun»), così come, per esempio, la metà occidentale di quella della Somme; allo stesso modo i soldati della Vandea o della Corsica, dipartimenti tratteggiati in diagonale, non avrebbero «combattuto a Verdun sotto Pétain» («Verdun not Pétain»). In totale, non meno di 28 dipartimenti sarebbero stati completamente esclusi dai combattimenti avvenuti tra marzo e aprile 1916 nella Mosa. Questo dimostra la loro affermazione rispetto al fatto che il «50,1% di tutti i comuni francesi e un po’ più della metà (53,34%) di quelli che hanno servito a Verdun l’hanno fatto in uno dei 92 reggimenti che hanno combattuto il comando di Pétain»9.
Il problema è che queste cifre, questa cartina, e quindi la variabile «combattuto a Verdun sotto Pétain» sono degli artefatti senza alcun senso e alcun rapporto con la realtà della Grande Guerra. Infatti, alla base della nostra critica e del nostro disaccordo con chi scrive vi è un importante malinteso riguardo al funzionamento dei reggimenti francesi del 1914-1918. Chi ha redatto il testo si è basato sui luoghi di reclutamento iniziale dei 144 reggimenti di fanteria per identificare quali unità avrebbero «combattuto a Verdun sotto Pétain» nel 1916 durante i circa due mesi in cui sarebbe stato a capo della II armata. Noi sosteniamo che, considerando la mescolanza geografica delle truppe fin dall’inizio della guerra e a maggior ragione nel 1916 a seguito del raddoppiamento nel numero dei reggimenti, tale uso del bacino di reclutamento iniziale non ha alcun senso10.
Poiché nel testo vi è la pretesa di collegare un comune ad un reggimento, nonostante vi siano state poi mescolanze successive, si deve concludere che si supponga che una parte significativa dei membri del reggimento abbia continuato a venire dai comuni che originariamente dipendevano dall’ufficio di reclutamento. Prendiamo un esempio a caso, quello di Châteauroux, sede del 90° reggimento di fanteria, e consideriamo i morti tra i fanti francesi della classe 1914 tra agosto 1914 e dicembre 1916 passati dall’ufficio di reclutamento del comune11. Solo il 10% di loro al momento della morte si trovava nel 90° reggimento: una proporzione paragonabile a quella del 13° (sede a Nevers), del 79° (sede a Nancy, Neufchâteau), del 85° (sede a Cosne) e del 95 (sede a Bourges). Viceversa, guardando sempre i morti tra i fanti francesi della classe 1914 tra l’agosto 1914 e il dicembre 1916 all’interno del 90° reggimento, solo il 10% è stato reclutato a Châteauroux, ovvero meno che a Limoges o a Guéret. Le assegnazioni iniziali, quelle a cui si fa riferimento nel testo, non corrispondono alla realtà della Grande Guerra. I dati su cui si è lavorato sono quelli, statici e teorici, dei tempi di pace, che non hanno più rapporto con l’esperienza reale delle assegnazioni durante il conflitto e il combattimento a Verdun nel 1916 che una mappa dei reggimenti dell’epoca napoleonica o una carta delle regioni militari del Secondo Impero.
Poiché sarebbe troppo lungo effettuare lo stesso procedimento per tutti gli uffici e la nostra spiegazione iniziale sulla mescolanza delle truppe non è stata compresa, si può adottare un approccio più sistematico. Proponiamo un’altra mappa che permette di constatare il problema. Si tratta di quella dei «morti per la Francia» nel dipartimento della Mosa in marzo-aprile 1916, ovvero i due mesi durante i quali infuria la battaglia di Verdun sotto il comando di Pétain12. Salta all’occhio un’osservazione: sono uomini che hanno «combattuto a Verdun sotto Pétain» nati in tutto il territorio francese. L’intero castello di mappe statiche su cui si basa la loro ricerca non regge più.

Mappa basata su «Morts pour la France»; numero dei morti per dipartimento rispetto alla popolazione del censimento del 1911.

Tra i dipartimenti non interessati da «Verdun sotto Pétain» si può citare la Côte-d’Or: 420 morti in due mesi, cioè 1,19 ogni mille abitanti. Per l’Oise («Not Verdun» et «Verdun not Pétain»), i combattimenti hanno causato 359 morti (0,87 ogni mille abitanti), stessa proporzione (0,87) per le Deux-Sèvres e i loro 259 morti («Verdun not Pétain»). Proporzioni più elevate che in alcune zone considerate mobilitate sotto Pétain a Verdun («Verdun under Pétain») come la Drôme (208 morti, 0,71 morti per mille abitanti) o le Côtes-du-Nord (334 morti, 0,55 morti per mille abitanti). Questi due mesi di combattimenti nella Mosa, al culmine dell’iniziale offensiva tedesca su Verdun, hanno prodotto poco più di 26.000 morti in totale: 0,66 morti per mille abitanti. Nei 28 dipartimenti che secondo le cartine di Julia Cagé, Anna Dagorret, Pauline Grosjean e Saumitra Jha non avevano «combattuto a Verdun sotto Pétain» questo tasso si assesta a 0,6 ogni mille: uno scarto minimo, che impedisce di assegnare loro questa caratteristica.
La battaglia di Verdun ha interessato fin dall’inizio soldati di tutto il territorio, proprio in ragione della mescolanza tra soldati di oltre 300 reggimenti. L’idea che si possa utilizzare il combattere «a Verdun sotto Pétain» come variabile geografica tra comuni per effettuare calcoli e confronti con il destino elettorale o politico di queste zone dieci o venti anni più tardi è un’ipotesi mal concepita, i cui esiti risultano falsati – indipendentemente dalla forza della «correlazione» ottenuta.

Metodi econometrici non trasferibili a materiali storici

Una volta che sono stati invalidati tutti i calcoli ci si può concentrare su altri punti problematici. Può essere messa in discussione anche la forza della correlazione «Verdun sotto Pétain» e «collaborazionismo» (concetto che, ricordiamolo, nel loro testo non è mai stato definito). La percentuale che viene citata nel loro lavoro, per cui alcuni comuni ospiterebbero il 9% in più di «collaborazionisti» è un artificio di presentazione che esaminato come valore assoluto non regge.
Per i non addetti ai lavori, come invece siamo noi, quest’analisi è complicata dalla deplorevole mancanza di chiarezza nella presentazione di metodi e risultati da parte di questo gruppo di lavoro. In assenza di sufficiente trasparenza, l’uso della statistica viene girato a vantaggio di chi scrive. Infatti, quel tasso di «collaborazionismo» per comune, fulcro dell’articolo, non è mai stato spiegato. Bisogna andare a cercarlo in una tabella della ricerca iniziale in inglese: dalla tabella IV (quella che deve mostrare il legame tra collaborazionismo e comuni «Verdun sotto Pétain») si può osservare che la percentuale di «collaborazionismo» di cui si è trattato, nel caso in cui la correlazione è più forte, passerebbe effettivamente dallo 0,32% allo 0,35%. Come annunciato, è un aumento del 9%: ma su un numero esiguo e storicamente insignificante13. Se si trasponessero questi numeri in forma più comprensibile potremmo dire che si tratta di 32 «collaborazionisti» per 10.000 abitanti nei comuni che non hanno «combattuto a Verdun sotto Pétain» contro i 35 su 10.000 negli altri. Risulta evidente: sotto l’apparenza di rigore scientifico di cui sono ammantati i calcoli di correlazione si trovano dati numerici non probanti rispetto agli standard a cui le evidenze storiche si attengono, considerandovi anche la storia quantitativa.
D’altra parte, l’interpretazione dei dati è sistematicamente orientata in modo da valorizzare e confermare l’ipotesi favorita dalle autrici e dall’autore del testo. Tra le variabili scelte per spiegare la presenza, più o meno importante, di «collaborazionisti» all’interno dei comuni, quella che emerge più nettamente non è, se non altro, la variabile «Verdun sotto Pétain», ma la popolazione. Questa ben più sorprendente correlazione, con la scusa che «i comuni rurali meno popolati tendavano, in Francia come altrove, ad essere a maggioranza conservatrice»14 non è stata giudicata abbastanza interessante da essere analizzata. Ci si potrebbe tuttavia interrogare non solo sul legame tra collaborazionismo e popolazione, ma anche sulla maggior probabilità di essere inseriti in un elenco di «collaborazionisti» (e quindi identificati da vicini o conoscenti) quando si abita in una città o in un piccolo paese o sul presupposto di un’equivalenza tra «collaborazionismo» e «conservatorismo» che, per chi ha studiato il periodo, è più che riduttivo.
Più in generale forse occorre ribadire, ancora una volta con rammarico per la differenza disciplinare, che ai nostri occhi per comprendere dei meccanismi storici, anche se stabilita (e abbiamo visto che non lo è), una correlazione non è sufficiente a definire una causalità perché non contiene mai in sé la sua interpretazione. È anche una delle basi della ricerca in scienze sociali, che porta a non limitarsi mai all’individuazione di fatti consecutivi o legami statistici apparenti (anche con la precauzione delle variabili di controllo) per dedurre un nesso causale. Supponendo che i calcoli delle colleghe e del collega abbiano effettivamente tracciato una correlazione tra «l’aver combattuto a Verdun sotto Pétain» e «collaborazionismo» e non tra due artefatti, ciò non costituirebbe comunque un risultato storico di per sé, ma il semplice punto di partenza di una vera e propria analisi volta a stabilire la reale natura del legame, identificare in quale modo operi su individui con appartenenze ed opinioni diversi, attraverso quali meccanismi sociali si sia concretizzato nel periodo tra le due guerre, ecc. Nonostante non ci sia nessuna indagine su questo punto, chi ha redatto il testo ha comunque utilizzato, come se si trattasse di un fatto certo, una formulazione del tipo «la rete degli eroi di Pétain, che seguivano il loro capo e influenzavano il loro entourage»15. Tali affermazioni rimandano, come abbiamo già detto, all’ignoranza rispetto alle relazioni con gli ufficiali e al tipo di esperienza di guerra tra il 1914 e il 1918: una cristallizzazione di affinità «eroiche» avrebbe potuto verificarsi, in alcuni casi precisi, molto più presso gli ufficiali di contatto che nei confronti del lontano capo dell’esercito, ed è questo che, eventualmente, sarebbe opportuno studiare empiricamente. L’adesione a Pétain legata all’aver servito «sotto i suoi ordini» per due mesi non è un’«ipotesi plausibile»16.

Come (non) criticare una fonte storica

Il carattere artificioso della variabile «Verdun sotto Pétain» basterebbe a dimostrare perché i calcoli che incrociano questa appartenenza geografica e uno schedario di «collaborazionisti» siano privi di valore. Tuttavia, occorre ribadire quanto il lavoro svolto su quest’ultimo documento presenti problemi metodologici altrettanto preoccupanti. La cosa più sorprendente è quanto chi ha redatto lo studio, nell’ultimo testo, insista in due occasioni sulla qualità del lavoro di contestualizzazione fatto:

Al contrario, nel nostro lavoro di ricerca sottolineiamo tutte le imperfezioni e discutiamo degli eventuali pregiudizi che possono derivare dalle modalità con cui esso è stato impostato […] gli autori ci accusano di non prestare sufficiente attenzione alle fonti. Questo è falso. Abbiamo passato gran parte del nostro articolo a descriverle, in particolare la lista di collaborazionisti, recentemente declassificata, su cui i nostri lavori si basano, cercando di spiegare le circostanze in cui fu costituita e di riconoscerne le potenziali limitazioni17.

Prendiamo sul serio queste affermazioni ed esaminiamo il lavoro svolto su questa fonte. Si tratta di un documento in nessun modo «declassificato», e mai depositato in un archivio. Di questa lista si sa poco, se non che era in possesso del colonnello Paillole, un ex militare giraudista membro dei servizi segreti della Francia libera fino al novembre 1944. È di una lista «raccolta nel 1944-1945 sotto la supervisione Paul Paillole»18 di cui si parla: doppio errore, quindi, perché avendo lasciato il suo ruolo alla fine del 1944 niente indica che sia stato all’origine del documento.
Viene scritto poi che il documento conterrebbe «i nomi di tutti i membri del Partito Popolare Francese (PPF) che fanno ormai parte dei nostri dati»: nuovo errore, poiché vengono attribuiti al PPF 9.403 nomi nonostante, in accordo con le stime, sarebbe stato composto da circa 40.000-50.000 membri19. È altrettanto falso scrivere che la lista «riguarda tutto lo spettro del collaborazionismo, da quello economico, all’adesione a partiti collaborazionisti o gruppi paramilitari»: per stessa ammissione del pur poco rigoroso autore, il collaborazionismo economico avrebbe un ruolo marginale. Il documento parlava di una «lista raffazzonata, con una restituzione dubbia in quanto a forma, come se fosse stata ritoccata a più riprese, se non ripulita o allungata»20: difficile vedervi una base solida per la quantificazione. Sono evidenti anche altri errori di comprensione, in particolare nella terminologia: vengono citati tra i gruppi che classificano come «nazisti» i presunti membri degli «Affaires Juives (Association des Administrations Provisoires)»21 nonostante si tratti degli amministratori fiduciari, cioè di coloro che sono stati incaricati di gestire i beni ebraici rubati dal Commissariato generale per le questioni ebraiche, un organo di Vichy e non della Germania nazista. Ciò dà spazio, tra l’altro, ad una nuova distorsione della dimensione della fonte utilizzata, che rischia di falsare i calcoli: sono state contate alcune decine di amministratori fiduciari membri dell’associazione, ma non ne facevano parte tutti i circa 6.000 amministratori fiduciari. Poiché i beni «arianizzati» si trovano per la maggior parte nelle grandi città, e prevalentemente nel dipartimento della Senna, la ripartizione geografica generale ne risulterebbe modificata e la supposta correlazione ne risulterebbe indebolita.
Come si può notare, contrariamente a quello che viene affermato, non è stata fatta alcun’indagine seria sulla provenienza e la natura di questo documento, di cui viene anche sbagliata l’attribuzione. Per un approccio quantitativo al fenomeno del collaborazionismo sarebbe stato possibile, certamente a costo di fare uno sforzo di ricerca, utilizzare i procedimenti giudiziari condotti durante l’epurazione: d’altronde si tratta di un’iniziativa che si ritrova in diversi lavori di riferimento sul tema, che purtroppo nella bibliografia delle autrici risultano assenti22. Avrebbe soprattutto richiesto una riflessione sul significato stesso del termine «collaborazionismo» utilizzato nella pubblicazione, cosa che costituisce un ingannevole guazzabuglio concettuale che si scontra con tutta la storiografia dell’Occupazione da cinque decenni – non torniamoci.

Conclusione: le condizioni di un dialogo interdisciplinare

Lavorare su questi temi, partecipare a questa discussione, per noi è stata una scoperta. Non tanto in merito alle interpretazioni suggerite, che non hanno veramente nulla di innovativo: l’idea secondo cui i veterani avrebbero sostenuto Pétain e Vichy è sempre presente nei luoghi comuni storiografici ancora in auge che bisognerebbe criticare. Quanto, piuttosto, nell’apprendere la misura del gigantesco divario in termini di metodi e riflessioni di ricerca che sembra dividere i praticanti della storia, intesa come studio del passato fondato su un utilizzo metodico delle sue fonti, e gli economisti, che intendono impadronirsi dei «dati» del passato per farvi sopra degli esperimenti, affrancandosi dal costo in tempo del lavoro specifico e della costruzione intellettuale di un oggetto di ricerca che l’investire su un campo implica. Due serie di numeri e dei calcoli di correlazione tra le due basterebbero a stabilire delle causalità, senza sovraccaricarsi del noioso lavoro bibliografico, della riflessione su terminologia e categorie concettuali e di una prudente critica delle fonti. Quali errori possano derivare da questo tipo di approccio l’abbiamo dimostrato: errori di calcolo che non sarebbero così dannosi se, applicati a questioni storiche e civili cruciali, non fossero anche errori di prospettiva. Né la Grande Guerra, né l’Occupazione possono essere comprese attraverso la dicotomia «eroi» e «cattivi» e il meccanismo monocausale che lega l’uno all’altro. Ci sembrava ovvio, ma scopriamo che in altre discipline non lo è. Ecco perché questo testo si chiude con la speranza di un dialogo interdisciplinare che non dovrebbe riguardare soltanto l’esattezza dei calcoli o la validità degli strumenti utilizzati, ma la tipologia stessa di sapere che si cerca di produrre, le ipotesi che implica, e ciò che realmente può essere considerato un «risultato» nelle scienze sociali: una correlazione forte o un problema ben posto? L’ideale sarebbe poter ottenere entrambi ma questo, a monte della statistica, richiede un vero dialogo interdisciplinare.

Linea di separazione
  1. «Heroes and Villains», cit., p. 3 : «We next show that individuals in municipalities that served under Pétain at Verdun were around 7-10% more likely to support Pétain’s 0bnhmyoo,lauthoritarian regime and participate in collaborationist organizations». []
  2. Ibidem, p. 5. []
  3. Vive l’éco-histoire, p. 2; l’impaginazione rinvia al documento PDF scaricabile dal sito d’AOC. []
  4. Ibidem, p. 3. []
  5. Ibidem. []
  6. Fare riferimento ai dibattiti riguardo alla causalità nei lavori di econometria presentati da BOURGEOIS-GIRONDE, Sacha, MONNET, Éric, «Expériences naturelles et causalité en histoire économique. Quels rapports à la théorie et à la temporalité?», in Annales. Histoire, Sciences Sociales, 72, 4/2017, pp. 1087-1116. []
  7. «Vive l’éco-histoire», cit., p. 3, traduzione di: «les résultats que nous obtenons sont-ils dus au hasard ? Cela est bien entendu une possibilité, comme toujours en matière d’analyse statistique. Mais compte tenu du très grand nombre de communes exploitées (près de 35 000), la probabilité pour qu’une telle relation ait été obtenue aléatoirement, c’est-à-dire pour que les communes ayant servi sous Pétain abritent davantage de collaborateurs, alors même que rien ne les distinguait avant la guerre, apparaît extrêmement faible : inférieure à 1% d’après nos estimations. Si nos détracteurs veulent refaire nos calculs, ils sont bien sûr libres de le faire. Mais remettre en cause notre travail et nos résultats de la façon dont ils le font, sans même avoir pris la peine de comprendre les fondements de notre méthode, nous semble problématique, et peu conforme aux usages de la recherche en sciences sociales». []
  8. Le autrici scrivono che il documento è stato «recentemente declassificato» («Vive l’éco-histoire», cit., p.4): è inesatto sia per il vocabolario che per il significato perché il documento, essendo stato conservato e trasmesso dopo la guerra a dei privati, non è mai stato «classificato». L’autore Dominique Lormier l’ha pubblicato sotto forma di «colpo editoriale» con il titolo, accattivante e inesatto, Les 100.000 collabos: le fichier interdit de la collaboration (Paris, Le cherche midi, 2017), agli antipodi di quello che è un lavoro rigoroso di editing delle fonti. []
  9. «Heroes and Villains», cit., p. 12. []
  10. Nella nostra risposta abbiamo preso l’esempio del 151° reggimento di fanteria, che era stato esplicitamente scartato dallo studio: si prenda atto che i suoi meccanismi di mescolanza nel territorio sono gli stessi di qualsiasi altro reggimento dell’armata, che loro non sembrano conoscere. []
  11. Calcoli effettuati sulla base di «Morts pour la France» dal sito «Mémoire des hommes». []
  12. Carta basata su «Morts pour la France», numero di morti per dipartimento rapportato alla loro popolazione censita nel 1911. []
  13. ZILIAK, Stephen T., McCLOSKEY Deirdre N., The Cult of Statistical Significance: How the Standard Error Costs Us Jobs, Justice, and Lives, Ann Arbor (Mich.), University of Michigan Press, 2008. []
  14. «Heroes and Villains», cit., p. 26. []
  15. «Pétain’s network of heroes, who followed their leader and swayed others around them», cit., p. 34. []
  16. «Vive l’éco-histoire», cit., p. 1. []
  17. Ibidem, p. 5. []
  18. Heroes and Villains, cit., p. 23. []
  19. Ibidem, p. 24; un passaggio che, all’interno dello stesso documento, viene ulteriormente contraddetto dall’allegato B1, che riporta i numeri stabiliti da Philippe Burrin. []
  20. LORMIER, Dominique, op. cit., p. 253. []
  21. Heroes and Villains, cit., p. 32. []
  22. ROUSSO Henry, L’épuration en France, in ID., Vichy. L’événement, la mémoire, l’histoire, Paris, Gallimard, 2001 ; ROUQUET François, VIRGILI Fabrice, Les Françaises, les Français et l’épuration. De 1940 à nos jours, Paris, Gallimard, 2018; BERGÈRE Marc, L’épuration en France, Paris, PUF, 2018. []

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